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martedì 5 ottobre 2010

Impugnazione della sanzione inflitta per violazione del divieto di fumo

Il divieto di fumo si applica anche nei locali assegnati alla disponibilità del dipendente pubblico, purchè aperti ad altri utenti ed al pubblico. Ciò vale non solo per le stanze degli impiegati e dei dirigenti, ma anche per lo studio in cui il docente universitario riceve gli studenti.
E se l'Amministrazione infligge al trasgressore la sanzione prevista dalla legge 11 novembre 1975, n. 584, artt. 1 e 7 e dalla Dir.P.C.M. 14 dicembre 1995, l'interessato non può impugnarla subito davanti al giudice.
Con questa sentenza, la n. 11281 del 2010, la Cassazione ha chiarito che il verbale di contestazione suindicato non costituisce titolo esecutivo e, dunque, prima di esperire l'azione giudiziale, l'interessato deve omettere il pagamento della somma prevista e attendere che l'Amministrazione procedente faccia rapporto al Prefetto e che questi disponga il pagamento con ordinanza. Solo al termine di tale procedimento l'interessato potrà presentare ricorso impugnando l'ordinanza che, avendo natura ingiuntiva, costituisce titolo esecutivo valido ai fini dell'impugnazione.

Separazione: la rata del mutuo a carico dell'ex marito può essere decurtata dall'assegno di mantenimento

Con sentenza del 25 giugno 2010, n. 15333, la Cassazione ha stabilito che in materia di separazione personale, ai fini della determinazione dell'assegno di mantenimento dovuto dall'un coniuge all'altro è legittimo avere riguardo al pagamento da parte del coniuge obbligato dell'intera rata di mutuo gravante sulla casa coniugale, acquistata in regime di comunione e, pur in assenza di figli, adibita ad abitazione della moglie. La circostanza di cui innanzi, oltre che pienamente ammissibile, in quanto apprezzamento di fatto, deve ritenersi non sindacabile in sede di legittimità.

lunedì 4 ottobre 2010

Sanzioni per violazione della normativa antiriciclaggio

In tema di sanzioni amministrative irrogate per violazione della normativa antiriciclaggio, al fine di accertare la violazione del divieto di cui all'art. 1, comma 1, del D.L. n. 143 del 1991, convertito nella legge n. 197 del 1991, per il quale non è possibile trasferire denaro contante e titoli al portatore per importi superiori ad Euro 12.500 senza il tramite di intermediari abilitati, occorre far riferimento al valore dell'intera operazione economica cui il trasferimento è funzionale. Ciò posto, sussiste la violazione del predetto divieto anche nell'ipotesi in cui, come accaduto nel caso concreto, il trasferimento si sia realizzato mediante il compimento di varie operazioni, ovvero con più versamenti di valore inferiore o pari al massimo consentito.

E’ impugnabile “la comunicazione di iscrizione a ruolo” inoltrata con il mezzo postale

Con la sentenza del 15/06/2010, n. 14373, Sez. Trib., i Giudici di legittimità ha stabilito che la “comunicazione di iscrizione a ruolo” spedito a mezzo posta ordinaria e non tramite notifica, è da ritenersi atto autonomamente impugnabile ai sensi dell’art. 32, co 1, lett. a) del D.Lgs. n. 46/1999. Tale decreto disciplina la fattispecie relativa alla c.d. riscossione spontanea delle imposte dovute a mezzo ruolo, prevedendo che si considera tale la riscossione da effettuare a “seguito di iscrizione a ruolo non derivante da inadempimento”. I giudici della Cassazione sostengono che la comunicazione di iscrizione a ruolo non è atto privo di effetti giuridici e quindi il contribuente ha l’interesse a impugnarlo a tutela della propria situazione giuridica. Interesse del contribuente che scaturisce proprio dalla comunicazione ricevuta a mezzo posta poiché contiene “la determinazione dell’esatta somma dovuta e la specifica che in mancanza del suo pagamento seguirà l’iscrizione a ruolo. Pertanto, tale atto si qualifica come una vera e propria liquidazione dell’imposta e quindi è da giudicare equipollente alla cartella esattoriale, impugnabile ai sensi del D.Lgs. n. 546/1992.
Tale sentenza si pone nel già consolidato solco dell’orientamento giurisprudenziale della medesima Cassazione, secondo il quale “nel processo tributario sono qualificabili come avvisi di accertamento o di liquidazione, impugnabili ai sensi dell’articolo 19 del D.Lgs n. 546/1992, tutti quegli atti con cui l’Amministrazione comunica una pretesa tributaria ormai definita, ancorché tale comunicazione non si concluda in una formale intimazione di pagamento, sorretta dalla progettazione in termini brevi dell’attività esecutiva, bensì con un invito bonario a versare quanto dovuto non assumendo alcun rilevo la mancanza della formale dizione “avviso di liquidazione” o “avviso di pagamento” o la mancata indicazione del termine o delle forme da osservare per l’impugnazione”.

venerdì 1 ottobre 2010

Il veicolo in stato di abbandono è rifiuto anche se iscritto al P.R.A.

In tema di rifiuti, la Terza Sezione della Cassazione, con sentenza del 10/06/2010, n. 22035, ha affermato che la circostanza che un veicolo risulti ancora iscritto negli elenchi del P.R.A. (Pubblico Registro Automobilistico) non ne esclude la natura di rifiuto speciale, nel caso in cui il suo stato di degrado lo renda inidoneo alla circolazione (Sez. 3, n. 20424 del 27/01/2009 Rv. 243504). In particolare, tenuto conto di quanto stabilito dall’art. 3 comma 1 lett. b) del D.Lgs. 24 giugno 2003, n. 209, richiamato dall’art. 231 del DLgs n. 152/06 (“veicolo fuori uso” è un veicolo ... a fine vita che costituisce un rifiuto ai sensi dell’art. 6 del “decreto Ronchi”) e dall’art. 3 comma 2, lett. a), D.Lgs. n. 209/2003 (è rifiuto il veicolo ufficialmente privato delle targhe per il quale sia stata effettuata la cancellazione al PRA), la S.C. afferma che “deve essere considerato “fuori uso” sia il veicolo di cui il proprietario si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi, sia quello destinato alla demolizione, ufficialmente privato delle targhe di immatricolazione, anche prima della materiale consegna a un centro di raccolta, sia quello che risulti in evidente stato di abbandono, anche se giacente in area privata” (Cassazione, Sez. 3, 23/06/2005, n. 33789).
Il reato di deposito incontrollato di rifiuti - di cui all’art. 51, comma 2, del “decreto Ronchi” e sostanzialmente riprodotto dall’art. 256 del D.Lgs. n. 152/06 - è ipotizzabile non soltanto in capo alle imprese o a gli enti che effettuano una delle attività indicate al comma primo del citato art. 51 (raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti), ma a qualsiasi impresa, avente le caratteristiche di cui all’art. 2082 cod. civ., o ente, con personalità giuridica o operante di fatto, atteso che il precedente riferimento alla attività di gestione dei rifiuti originariamente previsto dal comma in questione risulta soppresso con legge 9 dicembre 1998 n. 426 (Sez. 3, n. 9544 del 11/02/2004 Rv. 227570).

La procura per la diffida ad adempiere deve essere rilasciata sempre per iscritto

Non è raro che il creditore di una obbligazione non adempiuta si rivolga al proprio avvocato affinchè quest’ultimo diffidi ad adempiere con la “consueta” intimazione per iscritto. Ebbene, poiché rispetto al rapporto obbligatorio il legale è terzo, ovvero estraneo, affinchè la diffida medesima sia efficace è necessario che il mandato del creditore al proprio avvocato sia redatto per iscritto non essendo sufficiente la forma orale.
Risolvendo un contrasto risalente nel tempo, infatti, le SS.UU. della Cassazione, con sentenza n. 14292 del 15/06/2010, hanno statuito che la procura relativa alla diffida ad adempiere di cui all’art. 1454 c.c. (diffida per iscritto ad adempiere entro un congruo termine decorso il quale il contratto deve intendersi risoluto) deve essere rilasciata per iscritto, indipendentemente dal carattere eventualmente solenne della forma richiesta per il contratto destinato in ipotesi ad essere risolto.
Con la suddetta decisione, pertanto, i Supremi Giudici aderiscono ad una delle tesi già condivise in passato dalla stessa Corte, secondo la quale affinché la diffida ad adempiere possa produrre i suoi effetti è necessario che chi la invia sia un soggetto munito di procura scritta del creditore e che tale procura sia allegata alla diffida medesima o comunque portata a conoscenza del debitore. Ciò in quanto trattasi di atto unilaterale destinato a incidere sul rapporto contrattuale determinandone la risoluzione per l’inutile decorso del termine assegnato (Cass., 25.3.1978, n. 1447).

giovedì 30 settembre 2010

Assegno “familiare” per il figlio naturale: la posizione della Cassazione

I Giudici Supremi della Sezione Lavoro, con sentenza del 18 giugno 2010, n. 14783, si sono pronunciati sui beneficiari dell’assegno per il nucleo familiare chiarendo che esso, istituito e regolato dal D.L. n. 69 del 1988, spetta ai lavoratori dipendenti privati e pubblici, oltre ai pensionati, ed è commisurato al numero di componenti del nucleo familiare oltre che, ovviamente, all'entità del reddito percepito dall'avente diritto. In applicazione dell'art. 38 del D.P.R. n. 818 del 1957, che specifica la composizione del "nucleo familiare", sono da considerare componenti dello stesso, tra gli altri, i figli naturali legalmente riconosciuti che, ai sensi dell'art. 250 c.c., sono quelli riconosciuti nei modi indicati dall'art. 254 c.c. dal padre o dalla madre, anche se uniti in matrimonio con persona diversa all'epoca del concepimento. La condizione di figlio naturale riconosciuto, peraltro, per quanto qui rileva, non è assolutamente inficiata dall'assenza di inserimento nella famiglia legittima. Ebbene, la normativa sull'assegno familiare non richiede l'inserimento nell'ambito della famiglia legittima ma si limita a richiedere, ai fini del relativo riconoscimento, la condizione di figlio naturale per cui anche il soggetto coniugato e mai separato ma convivente con altra persona ha diritto alla percezione dell'assegno familiare per i figli naturali, minori, legalmente riconosciuti se prova che, essendo posti a suo carico, provvede al loro mantenimento.

Il T.A.R. Puglia si pronuncia sul termine d’impugnazione della licenza edilizia

Con Sentenza n. 2222 del 30 settembre 2009, il T.A.R. Puglia ha stabilito che in materia d’impugnazione di una concessione edilizia – ora p.d.c. – rilasciata a terzi, la decorrenza dei termini decadenziali di cui all’art. 21 legge n. 1034/71 scatta da quando la nuova costruzione riveli in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell’opera e la eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica. Ne consegue che il termine di impugnazione inizia a decorrere dal completamento dei lavori a meno che non si sostenga la assoluta inedificabilità dell’area o non si muovano analoghe censure, tali per cui risulta sufficiente la conoscenza della iniziativa in corso.
I Giudici “Pugliesi”, altresì, hanno ribadito che: se si fanno valere vizi concernenti la inedificabilità del terreno, il termine decorre da quando si ha conoscenza dell’iniziativa edificatoria (inizio dei lavori, apposizione del cartello di cantiere, etc.); mentre se si fanno valere vizi concernenti la conformità del titolo alla disciplina edificatoria locale o generale, il termine decorre dalla data di ultimazione dei lavori (ovvero, se antecedente, dalla data di piena conoscenza del titolo, avuta – ad esempio – tramite accesso agli atti amministrativi).
In ogni caso, la conoscenza tramite accesso agli atti amministrativi, pur rilevando come momento essenziale di percezione piena e completa della lesività del contenuto del provvedimento amministrativo, non può essere utilizzata quale attività – magari, reiterata – dal termine di espletamento della quale decorre l’eventuale impugnazione, posto che vi sono aspetti di lesione che si evidenziano già dai lavori in corso (si pensi al mancato rispetto delle normative in materia di distanze, aperture, etc.), ancorché i lavori non siano ultimati.

giovedì 17 giugno 2010

Illegittima la revisione della patente se effettuata in pendenza di un ricorso amministrativo

Prendendo lo spunto da un caso in cui un’automobilista impugnava, chiedendone ed ottenendone l'annullamento, il provvedimento di revisione della patente di guida per esaurimento del punteggio di 20 punti, in quanto assunto e notificatogli nonostante la pacifica pendenza del ricorso proposto, e tra l'altro mai riscontrato, avverso il verbale che provvedeva alla decurtazione degli ultimi punti in dotazione, il T.A.R. Campania, Napoli, con sentenza del 26 maggio 2010, n. 9185, ha stabilito che l'atto di revisione della patente di guida, in quanto avente carattere provvedimentale, è affetto da nullità qualora adottato in un tempo antecedente la conclusione dell'iter procedimentale dei ricorsi amministrativi ammessi dalla legge e che, pertanto, sono illegittime le determinazioni assunte in sede di revisione della patente di guida ove, come nella specie, il procedimento giurisdizionale o amministrativo instaurato dall'interessato avverso le sanzioni a suo carico emesse sia ancora pendente e tutt'altro che definito.

La comunicazione della perdita dei punti patente non può essere “cumulativa”

Con sentenza del 26 maggio 2010, n. 1670, il T.A.R. Lombardia, ha chiarito che l'art. 126 bis del D.Lgs. n. 285 del 1992, come introdotto dal D.Lgs. n. 9 del 2002, disciplina l'istituto della “patente a punti” e impone, in particolare, all'organo da cui dipende l'agente accertatore della violazione di comunicare all'anagrafe nazionale degli abilitati alla guida, entro trenta giorni dall'avvenuta contestazione, la variazione del punteggio. A sua volta grava sull'Anagrafe l'onere di comunicare all'interessato la variazione del punteggio onde consentirgli di frequentare gli appositi corsi di aggiornamento al fine di riacquisire i punti persi. In relazione ai summenzionati corsi, peraltro, è bene specificare che il D.M. del 29 luglio 2003 del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha statuito, innanzi tutto, che la relativa iscrizione non è possibile se non si è ricevuta la comunicazione de quo e che non è consentito frequentare due corsi contemporaneamente o, comunque, più di un corso per ogni decurtazione di punteggio. Siffatto quadro normativo, quindi, è incompatibile con la possibilità di comunicare in maniera cumulativa e riepilogativa tutte le decurtazioni subite dal soggetto in un'unica soluzione senza consentirgli, in termini pratici, di attivarsi per tempo per il recupero, mediante la frequentazione degli appositi corsi, del punteggio via via perso. E', in conclusione, illegittimo per violazione di legge, e deve essere, conseguentemente, annullato, il provvedimento di revisione della patente di guida il cui presupposto sia stata una comunicazione in ordine alla perdita di un certo numero di punti operata in modo cumulativo, ovvero accorpando diverse e successive violazioni rispetto alle quali, invece, nessun avviso formale è stato notificato singolarmente al conducente.

martedì 1 giugno 2010

Segnalazione dei debitori alla Centrale Rischi: la Cassazione pone dei “paletti” alle Banche

Un’importante sentenza della Cassazione interviene sulla problematica, acutizzata dall’attuale crisi economica, della segnalazione alla Centrale Rischi dei debitori inadempienti ad opera delle Banche.
Con la decisione adottata il 24 maggio 2010, n. 12626, infatti, gli Ermellini hanno stabilito che deve essere escluso lo stato di insolvenza, ovvero la sussistenza di una situazione ad esso equiparabile, che legittima l'invio della segnalazione alla Centrale Rischi istituita presso la Banca d'Italia, qualora lo stesso sia stato dedotto da elementi non idonei a valutare compiutamente la capacità finanziaria dei soggetti ed enti di cui è stato dichiarato. Rilevato, infatti, che la dichiarazione di stato di insolvenza deve essere frutto di una valutazione negativa della situazione patrimoniale, valutazione oggettiva di grave e non transitoria difficoltà economica e incapacità finanziaria, non è legittimo far pervenire la relativa segnalazione alla Centrale Rischi fondando detta dichiarazione sull'apprezzamento generico dei bilanci societari, anche se in perdita da diversi anni, nonché sulla sussistenza di esposizioni della medesima società nei confronti di altri Istituti di Credito. Risultano di contro elementi idonei ad escludere siffatta valutazione l'operatività sul mercato dell'impresa, il fatto che la stessa sia titolare di un patrimonio immobiliare ed in attrezzature ben superiore al credito vantato dall'Istituto bancario segnalatore e l'assenza di procedure esecutive o elevazioni di protesti. Deve peraltro essere rilevato che è onere di ciascun Istituto bancario, indipendentemente da ogni ulteriore ed approfondita indagine relativa alla capacità finanziaria dei propri clienti in presunta sofferenza, compiere, ricorrendo allo stesso sistema informativo della Centrale, accertamenti relativi ad elementi sintomatici dello stato di insolvenza quali la revoca degli affidamenti, l'emissione di decreti ingiuntivi, la sussistenza di azioni di recupero di crediti, pignoramenti, protesti, procedure esecutive in corso. L'omissione in ordine all'esecuzione di detto tipo di attività preliminare da parte dell'Istituto bancario che, come detto, abbia fondato la propria segnalazione solo su una superficiale valutazione dei bilanci e delle esposizioni del cliente, connota il comportamento dello stesso come imprudente e tecnicamente imperito.

Il pagamento in misura ridotta della contravvenzione non consente la successiva impugnazione

Con sentenza del 26 maggio 2010, n. 12899, la Cassazione ha statuito che in materia di violazioni al codice della strada, il c.d. "pagamento in misura ridotta" di cui all'art. 202, D.Lgs. n. 285 del 1992 (Codice della Strada), corrispondente al minimo della sanzione comminata dalla legge, da parte di colui che è indicato nel processo verbale di contestazione come autore della violazione, implica necessariamente l'accettazione della sanzione e, quindi, il riconoscimento, da parte dello stesso, della propria responsabilità e, conseguentemente, nel sistema delineato dal legislatore anche ai fini di deflazione dei processi, la rinuncia ad esercitare il proprio diritto alla tutela amministrativa o giurisdizionale, quest'ultima esperibile immediatamente anche avverso il suddetto verbale ai sensi dell'art. 204 bis C.d.S., qualora non sia stato effettuato il suddetto pagamento. L'intervenuta acquiescenza da parte del contravventore conseguente a tale sopravvenuto rituale pagamento preclude, inoltre, allo stesso l'esercizio di eventuali pretese civilistiche, quali la "condictio indebiti" e l'"actio damni" riconducibili all'avvenuta contestazione delle violazioni al C.d.S. per le quali si sia proceduto a siffatto pagamento con effetto estintivo della correlata pretesa sanzionatoria amministrativa.

Il concorso di colpa nella determinazione di un sinistro stradale, non esclude un diverso obbligo risarcitorio

Succede sovente che i sinistri stradali siano frutto della guida poco accorta di tutti gli automobilisti che ne restano vittima. Il cosiddetto concorso di colpa, in questi casi, non determina sempre un obbligo risarcitorio “salomonico”, ovvero identico per tutte le vittime e dunque compensato tra le stesse.
E’ questa, infatti, l’opinione della Suprema Corte di Cassazione che con la sentenza n. 10193, del 28/04/2010, ha affermato sul punto che non si viola l’art. 2054 c.c., (presunzione di concorso di colpa) con l’escludere il paritetico apporto causale dei conducenti, benché i comportamenti di entrambi fossero stati considerati cause efficienti dell’evento, non essendo incompatibile con la causalità che ciascuna causa incida con efficienza diversa al verificarsi dell’evento e che, dunque, ai fini risarcitori siano percentualmente graduabili i rispettivi apporti determinativi, benché l’evento non si sarebbe verificato se anche una soltanto di esse fosse mancata.

mercoledì 26 maggio 2010

La Cassazione riconosce al Fisco un potere inaspettato …

Con la sentenza del 19/05/2010, n. 12249, la Cassazione ha trattato il tema dell'abuso del diritto in ambito tributario ritenendo legittimo che il Fisco attribuisca a un contratto una natura giuridica diversa rispetto a quella adottata dalle parti.
I Supremi Giudici, infatti, hanno confermato l’abbandono del risalente suo orientamento (da ultimo, Cass. 5282/02), che precludeva all’Amministrazione finanziaria di rideterminare la natura di un contratto, prescindendo dalla volontà realmente manifestata dalle parti, ed hanno confermato, invece, il nuovo corso interpretativo che permette al Fisco, assumendone l’onere della prova, di esercitare il potere di riqualificare i contratti stipulati dalle parti o di farne rilevare la nullità o invalidità, in modo da dare ingresso ad un trattamento fiscale meno favorevole di quello che consegue agli effetti dello schema contrattuale adottato dalle parti.
Tale principio, a detta dei giudici, si rinviene nel sistema costituzionale, così come già sostenuto dalle Sezioni Unite con le sentenze n. 30055 e 30057/08, e pertanto si estende a tutte le forme di abuso del diritto, compresa quella in ambito fiscale.
Con questa impostazione sono contestabili dal Fisco, e comunque ad esso non opponibili, non solo i comportamenti fraudolenti derivanti dagli schemi negoziali che li configurino, ma anche quelli che comportano un abuso del diritto autonomo rispetto all’ipotesi di frode, aventi carattere meramente elusivo e quindi diretti a conseguire vantaggi di ordine fiscale in assenza di concrete e valide ragioni di natura economica. Connotazioni che possono rinvenirsi in qualsiasi atto negoziale, tipizzato o meno.
Secondo la Suprema Corte, inoltre, il divieto dell’abuso del diritto ricorre anche se il contratto è tipico ed è privo di concrete finalità illecite, oltre che voluto realmente dalle parti, assumendo rilevanza ed essendo solo richiesto che ricorrano oggettivi elementi che inducano a ritenere che si è fatto ricorso ad esso essenzialmente allo scopo di conseguire un vantaggio fiscale. La finalità non deve essere necessariamente esclusiva perché eventuali marginali e non determinanti ragioni economiche concorrenti non scalfiscono questa ricostruzione che fa ritenere l’utilizzo del contratto, tipico o atipico poco importa, come strumento per realizzare un abuso dello schema legale per conseguire finalità di elusione fiscale, essendo intento determinante delle parti quello di ottenere un abbattimento dell’onere fiscale.
L’elemento innovativo sta nell’estensione dell’applicazione dei principi sull’abuso del diritto anche ai contratti tipizzati dal codice civile, che, secondo un’opinione diffusa, non dovrebbero essere manipolabili, al contrario dei contratti atipici (tra tutti ad es. il leasing frazionato o il lease-back). Non è invece servito al contribuente invocare la tipicità del contratto e generici motivi di convenienza organizzativa per fornire la prova, rimessa a suo carico, che l’impiego dello strumento contrattuale in contestazione non aveva il fine essenziale di conseguire un risparmio di imposta.
Nella specie, l’uso del contratto tipizzato del comodato, ai fini della natura abusiva dell’operazione, è stato considerato inconsueto ed anomalo rispetto alla normale funzione di tale negozio giuridico, per cui la sua opponibilità al Fisco richiedeva una giustificazione rigorosa in rilevanti ed evidenti ragioni economiche del tutto sganciate dal trattamento fiscale che ne consegue, che deve costituire un elemento subordinato ed accessorio.
La libertà contrattuale, dunque, sembra fortemente compressa se il fine è quello di ottenere un maggiore risparmio fiscale e il Fisco potrà intervenire su qualunque operazione.
Il confine tra abuso di diritto e lecito risparmio d’imposta si assottiglia lasciando spazio al pericolo di maggiori accertamenti.

Locazione e indennità per perdita dell’avviamento: ecco come dimostrarlo

Con sentenza del 06/05/2010, n. 10962, la Cassazione è intervenuta sulla problematica della prova dei requisiti richiesti per ottenere tale indennità, disponendo che, in generale, in tema di indennità per la perdita dell'avviamento commerciale, la sussistenza del requisito richiesto dall'art. 35 della legge 27 luglio 1978, n. 392, si ravvisa nell'esigenza che l'immobile locato sia utilizzato dal conduttore, nell'esercizio dell'impresa o del lavoro autonomo, come luogo aperto alla frequentazione diretta (senza intermediazione) della generalità originariamente indifferenziata del pubblico per concludere rapporti negoziali con il conduttore, sul quale incombe l'onere di fornire, con qualsiasi mezzo, la prova della sussistenza delle relative condizioni, sempre che siffatta frequentazione non risulti implicitamente, in virtù del notorio, dalla destinazione dell'immobile ad attività che necessariamente la implichi.
Ovvero, in materia di locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, la destinazione dell'immobile all'esercizio dell'attività commerciale, in tanto può determinare l'esistenza del diritto all'indennità per la perdita dell'avviamento, in quanto il conduttore istante provi che il locale possa essere considerato come luogo aperto alla frequentazione diretta della generalità dei consumatori e, dunque, da sé solo in grado di esercitare un richiamo su tale generalità, così divenendo un collettore di clientela ed un fattore locale di avviamento.
Del resto, l’indennità per la perdita dell'avviamento commerciale, prevista dall'art. 34 legge 27 luglio 1978, n. 392, è dovuta al conduttore uscente a prescindere da qualsiasi accertamento circa la relativa perdita ed il danno che il conduttore stesso abbia subito in concreto in conseguenza del rilascio, con la conseguenza che essa spetta anche se egli continui ad esercitare la medesima attività in altro locale dello stesso immobile o in diverso immobile situato nelle vicinanze. Su tali aspetti generali cfr., ad es., Cass. n. 20829 del 2006 e, da ultimo, Cass. n. 6948 del 2010. C
Inoltre, in caso di locazione di immobile per uso promiscuo, cioè per lo svolgimento di attività plurime, alcune soltanto delle quali comportino il contatto diretto con il pubblico degli utenti e dei consumatori ed altre no, la prevalenza del primo tipo di uso rispetto al secondo deve essere provata dal conduttore che, alla cessazione del rapporto, reclami la corresponsione dell’indennità in oggetto, e non dal locatore.
Infine, con tale decisione è stato escluso che, in difetto di contestazione da parte del locatore convenuto, il conduttore che agisca per il versamento dell’indennità in questione abbia l’onere di provare anche che l’attività comportante contatto diretto col pubblico fosse lecitamente svolta sotto il profilo amministrativo, giacché non si ha l’onere di provare i fatti che non siano contestati e poiché corrisponde all’ “id quod plerumque accidit” che chi esercita un’attività commerciale sia munito delle necessarie autorizzazioni per svolgerla.

martedì 25 maggio 2010

La multa senza foto per eccesso di velocità rilevata dal Telelaser è valida se attestata dai verbalizzanti

Con sentenza n. 10924 del 5 maggio 2010, la Cassazione ha osservato che in tema di accertamento delle violazioni dei limiti di velocità a mezzo apparecchiature elettroniche, poiché l’art. 142 cod. str. si limita a prevedere che possono essere considerate fonti di prova le apparecchiature debitamente omologate, e l’art. 345 del regolamento di esecuzione, approvato con d.P.R. n. 495 del 1992, dispone che le suddette apparecchiature, la cui gestione è affidata direttamente dagli organi di polizia stradale, devono essere costruite in modo tale da raggiungere detto scopo fissando la velocità in un dato momento in modo chiaro e accertabile, tutelando la riservatezza dell’utente, senza prevedere che della rilevazione debba necessariamente ed esclusivamente essere attestata da documentazione fotografica, è legittima la rilevazione della velocità di un autoveicolo effettuata a mezzo apparecchiature elettronica denominata “telelaser” - apparecchiatura che non rilascia documentazione fotografica dell’avvenuta rilevazione nei confronti di un determinato veicolo, ma che consente unicamente l’accertamento della velocità in un determinato momento, restando affidata alla attestazione dell’organo di polizia stradale addetto alla rilevazione la riferibilità della velocità proprio al veicolo dal medesimo organo individuato - in quanto l’attestazione dell’organo di polizia stradale ben può integrare, con quanto accertato direttamente, la rilevazione elettronica attribuendo la stessa ad uno specifico veicolo, risultando tale attestazione assistita da efficacia probatoria fino a querela di falso, ed essendo suscettibile di prova contraria unicamente il difetto di omologazione o di funzionamento dell’apparecchiatura elettronica (Cass. 5873/04; 7013/06). Pertanto in presenza di personale dell’amministrazione competente, la verbalizzazione da questi compiuta è garanzia sufficiente dell’affidabilità della rilevazione; per superarla non è quindi sufficienti le opinioni espresse da tre testimoni, il cui apprezzamento, in considerazione dei ridottissimi margini tra la contestazione e la valutazione da essi resa, non può che assurgere a mera opinione personale, priva di valore probatorio tale da superare le risultanze elettroniche e le attestazioni dei verbalizzanti, munite di fede privilegiata con riferimento alle verifiche e all’apparente funzionamento dell’apparecchio e al puntamento del veicolo.

La ristrutturazione blocca gli studi di settore

Con sentenza del 17/05/2010, n. 203, la Commissione tributaria provinciale Milano, ha respinto la contestazione di gestione diseconomica (differenza tra dichiarato e risultanze da studi di settore) e ha accolto il ricorso di un contribuente che aveva dichiarato un reddito nettamente inferiore rispetto a quello presuntivo ottenibile con gli studi di settore, motivando tale decisione con l’osservazione che I lavori di ristrutturazione dei locali in cui si svolge l’attività commerciale impediscono la normale gestione dell’azienda e costituiscono una circostanza di cui non si può non tenere conto nel valutare se è motivato o meno lo scostamento tra i risultati dichiarati dal contribuente e le risultanze dello studio di settore.
Lo scostamento delle risultanze dello studio di settore risulta essere stato, a giudizio del Collegio, più che motivato, non integrando così lo stesso l'ipotesi di gestione diseconomica (fondamento dell'accertamento con il metodo dello studio di settore).
Principio sotteso a tale conclusione era già stato fissato dalla Cassazione più volte in passato, la quale ha sostenuto che il fisco deve innanzitutto verificare se la condotta del contribuente sia effettivamente irrazionale.
Nell’ipotesi in esame non si può parlare di risultati abnormi o contrari al senso comune: il contribuente, infatti, ha tenuto un comportamento più che razionale, credibile e non producente risultati contrari al senso comune, in quanto affrontare un periodo di minor ricavi per migliorare, ristrutturare e adeguare i locali della propria azienda non dovrebbe potersi ritenere irrazionale, soprattutto quando porti ad un incremento di ricavi successivi.

venerdì 21 maggio 2010

Il preavviso di fermo amministrativo (“ganasce”) è sempre impugnabile!

Il preavviso di fermo amministrativo è impugnabile, in quanto il destinatario del preavviso ha un interesse specifico e diretto al controllo della legittimità sostanziale della pretesa che è alla base del provvedimento cautelare. E' questo il principio di diritto disposto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11087 del 7 maggio scorso.
Secondo la massima Corte, l’atto impugnato contiene, oltre all’invito al pagamento da effettuarsi entro venti giorni dalla notifica, la comunicazione ultima che decorso inutilmente il termine per pagare si provvedere alla iscrizione del fermo presso il Pubblico Registro Automobilistico senza ulteriore comunicazione. Quindi, l’atto impugnato vale come comunicazione ultima della iscrizione del fermo entro i successivi venti giorni (salvo pagamento).
Inoltre, il disposto dell'art. 86, comma 2, del D.P.R. n. 602/1973, secondo cui il concessionario deve dare comunicazione del provvedimento di fermo al soggetto nei cui confronti si procede, decorsi sessanta giorni dalla notificazione della cartella esattoriale, è stato superato dalla prassi di invitare ulteriormente l’obbligato ad effettuare il pagamento, comunicando contestualmente che alla scadenza dell’ulteriore termine si procede all’iscrizione del fermo.
Sulla diretta impugnabilità del preavviso del fermo, i Supremi Giudici sostengono che il preavviso di fermo amministrativo, che riguardi una pretesa creditoria dell’ente pubblico di natura tributaria è impugnabile innanzi al giudice tributario, in quanto atto funzionale a portare a conoscenza del contribuente una determinata pretesa tributaria, rispetto alla quale sorge l’interesse del contribuente alla tutela giurisdizionale per il controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva, a nulla rilevando che tale preavviso non compaia esplicitamente nell’elenco degli atti impugnabili contenuto nell'art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, in quanto tale elencazione va interpretata in senso estensivo, nel rispetto delle norme costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento della P.A.

Effetti della sentenza penale ed eccezionale valenza della testimonianza nel processo tributario

Con sentenza del 14 maggio 2010, n. 11785, la Cassazione interviene su due argomenti di estrema importanza nell’ambito del processo tributario (che si instaura in caso di contenzioso tra l’Erario e il contribuente), individuando un’eccezionale valenza della testimonianza e chiarendo la portata della sentenza penale emessa per i reati tributari.
Secondo i Supremi Giudici il divieto di ammissione della prova testimoniale nel giudizio dinanzi le Commissioni Tributarie, come sancito dal disposto normativo di cui all'art. 7, comma quarto, D.Lgs. n. 546 del 1992, si riferisce alla prova testimoniale da assumere nel processo e non implica, per tale ragione, l'inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall'Amministrazione nella fase procedimentale, rese da soggetti terzi rispetto al rapporto tra contribuente ed Erario. In ipotesi siffatte, le menzionate informazioni testimoniali assumono, tuttavia, il valore probatorio degli elementi indiziari, i quali devono essere, in quanto tali, necessariamente supportati da riscontri dal carattere oggettivo. (Fattispecie relativa ad intervenuta corretta valutazione da parte della C.T.R. di deposizioni testimoniali ed indagini peritali svoltesi nel processo penale).
Il giudicato penale e la sua efficacia vincolante non operano automaticamente nel processo tributario, stante da un lato la vigenza in tale procedimento di limitazioni della prova, dall'altro la valenza di presunzioni idonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ciò rilevato, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi, nel separato giudizio tributario, alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l'Amministrazione finanziaria ha promosso l'accertamento nei confronti del contribuente. Il Giudice Tributario, non può, pertanto, limitarsi a rilevare la esistenza di una pronuncia definitiva in materia di reati tributari, automaticamente estendendone gli effetti all'azione accertatrice del singolo ufficio tributario, poiché è tenuto, nell'esercizio dei propri poteri autonomi di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti, a verificarne la rilevanza nell'ambito in cui esso è destinato ad operare (poteri che, in quanto nella specie correttamente esercitati, determinano l'infondatezza del ricorso proposto avverso la decisione della C.T.R., nella parte in cui attribuiva carattere decisivo e determinante alle risultanze del processo penale).

L’I.C.I. gode del privilegio generale sui mobili ai sensi dell’art. 2752 codice civile

Con l’importante sentenza del 17 maggio 2010, n. 11930, le Sezioni Unite della Cassazione sciolgono definitivamente il nodo fonte di contrasti dottrinali e giurisprudenziali riguardante la sussistenza o meno del privilegio ex art. 2752 codice civile a favore dell’I.C.I..
Secondo gli Ermellini, infatti, le norme del codice civile che stabiliscono i privilegi (ovvero la preferenza rispetto agli altri crediti, tale per cui il loro adempimento deve essere “privilegiato”) in favore di determinati crediti possono essere oggetto di interpretazione estensiva, la quale costituisce il risultato di una operazione logica diretta ad individuare il reale significato e la portata effettiva della norma, che permette di determinare il suo esatto ambito di operatività, anche oltre il limite apparentemente segnato dalla sua formulazione testuale, e di identificare l’effettivo valore semantico della disposizione, tenendo conto dell’intenzione del legislatore e, soprattutto, della causa del credito che, ai sensi dell’art. 2745 c.c., rappresenta la ragione giustificatrice di qualsiasi privilegio. Ne deriva che il privilegio generale sui mobili istituito dall’art. 2752 c.c. sui crediti per le imposte, tasse e tributi dei Comuni previsti dalla legge per la finanza locale, deve essere riconosciuto anche per i crediti dei Comuni relativi all’imposta comunale sugli immobili (ICI) introdotta dal D.Lgs. n. 504 del 1992, pur se successiva, e quindi non compresa, tra i tributi contemplati dal R.D. n. 1175 del 1931.

giovedì 13 maggio 2010

L’assegno divorzile non è quantificabile sulla base dello stipendio medio di un lavoratore dipendente

Con sentenza del 24 Marzo 2010 , n. 7145, la Cassazione ha chiarito che in base all'art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall'art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, l'accertamento del diritto all'assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l'esistenza del diritto in astratto, in relazione all'inadeguatezza dei mezzi o all'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio, e quindi procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l'inadeguatezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della misura dell'assegno. Nella seconda fase, il giudice deve poi procedere alla determinazione in concreto dell'assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5. Al fine della quantificazione dell'assegno di divorzio, il giudice del merito, pur potendosi avvalere di un raffronto con l'assegno pattuito o giudizialmente fissato nel pregresso regime di separazione, non può e non deve utilizzarlo come parametro vincolante, ma deve attribuirlo e liquidarlo in base ai criteri autonomamente fissati dall'art. 5 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, data la diversità delle relative discipline sostanziali, della natura, struttura e finalità dei due trattamenti, correlate e diversificate situazioni, con la conseguenza che l'assetto economico relativo alla separazione può rappresentare mero indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione.
In particolare, la determinazione dell'assegno divorzile va effettuata verificando l'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontata ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. L'accertamento del giudice del merito in ordine alle condizioni economiche dei coniugi ed al reddito di entrambi deve essere compiuto, non in astratto, bensì in concreto; pertanto, detto giudice non può basare la propria decisione su un mero apprezzamento probabilistico, non fondato su dati realmente esistenti con riferimento alla specifica fattispecie.
Nella specie la concreta liquidazione dell'assegno e segnatamente la sensibile riduzione dell'importo stabilito in primo grado, risulta illegittimamente disposta dai giudici di merito senza la ponderata e bilaterale considerazione dei criteri di legge, nonché e con riguardo alle condizioni economiche dell'onerato, pur ritenute ottime per il sopravvenuto notevole incremento del suo patrimonio, valorizzando, in prospettiva del tutto astratta ed anche inappagante sul piano della congruenza logica, l'evoluzione negativa della potenzialità produttiva del suo gruppo societario, nonché ancora, in riferimento alle esigenze della beneficiaria, con erroneo riferimento limitativo ad un modello di vita proprio di un qualsiasi lavoratore dipendente, in luogo del pregresso tenore di vita coniugale che, invece, avrebbe dovuto costituire il tetto massimo della misura della contribuzione.

Incidenti stradali: il danno derivante dalla ridotta capacità lavorativa va risarcito a titolo di lucro cessante

Con sentenza del 30 marzo 2010, n. 7631, la Cassazione ha stabilito che il diniego, da parte dei giudici d’appello, di riconoscere al ricorrente il risarcimento, a titolo di lucro cessante, del danno derivante dalla differenza tra il reddito percepito dal lavoratore dipendente ed i minori redditi da lavoro autonomo dal medesimo percepiti nei tre anni successivi, deve ritenersi assolutamente illegittimo.
Esso si pone, in particolare, in contrasto con la norma dell’art. 4 della legge n. 39 del 1977 e con i criteri di liquidazione in essa stabiliti.
Come è noto, tali criteri sono applicabili, in tema di risarcimento danni alla persona derivanti dalla circolazione stradale, nei soli casi in cui il danneggiato sia percettore di reddito di lavoro (Cass. n. 10269/94) e sempre che dal sinistro sia derivata una invalidità permanente che abbia cagionato un danno correlato al mancato guadagno futuro conseguente ad una riduzione della capacità lavorativa.
In tali casi “le dichiarazioni dei redditi hanno efficacia probatoria privilegiata, ai sensi dell’art. 4 l. 26.2.1977 n. 39, soltanto quando ricorrano due condizioni: oggetto del giudizio sia l’azione diretta promossa dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore della r.c.a. del responsabile, ex art. 18 l. n. 990 del 1969; che il danno che si intende provare con la dichiarazione dei redditi sia costituito da una contrazione del reddito conseguente ad invalidità permanente” (Cass. n. 11007/2003).
A prescindere dalla circostanza che in tema di liquidazione del danno patrimoniale futuro derivante dalla diminuita capacità “l’art. 4 d.l. n. 587 del 1976... non richiede che il reddito desumibile dal modello 740 debba essere altrimenti avvalorato...” (Cass. n. 6941/1996), va tenuto conto, in particolare, del ruolo specifico e determinante che assumono in subiecta materia le dichiarazioni fiscali, per cui risulta assolutamente arbitrario il rilievo secondo cui “le dichiarazioni fiscali non provano che il lavoratore non possa raggiungere un guadagno più elevato di quello dichiarato”.

martedì 11 maggio 2010

La competenza del giudice tributario si estende anche ai debiti iscritti a ruolo aventi natura non tributaria

Con Ordinanza 16 - 30 marzo 2010, n. 7612, le Sezioni Unite della Cassazione sciolgono un nodo di estrema importanza chiarendo al contribuente quale giudice può adire per i debiti iscritti a ruolo e aventi natura non solo tributaria.
Secondo gli Ermellini, infatti, poiché a norma dell’art. 2 del d.lgs. 31/12/92 n. 546, tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati appartengono alla giurisdizione tributaria, anche la controversia attinente alla rateizzazione del debito tributario spetta a detta giurisdizione, avendo ad oggetto per l’appunto un debito tributario, a nulla rilevando che la decisione spettante all’Agenzia delle Entrate debba essere assunta in base a considerazioni estranee alla materia tributaria, essendo la giurisdizione attribuita in ragione esclusiva dell’oggetto della controversia. Inoltre, appare priva di rilievo la circostanza che, potendo la rateizzazione riguardare debiti di diversa natura, il debitore debba adire giudici diversi in relazione alla diversa natura dei debiti stessi, essendo, questo un inconveniente di fatto comune all’intera materia della riscossione mediante ruoli.

Fisco: se manca l'allegato l'iscrizione ipotecaria è nulla!

Si rafforza la tutela del contribuente, che incassa una nuova favorevole sentenza, stavolta ad opera della Commissione Tributaria provinciale di Parma.
Il Giudice Tributario, infatti, con sentenza del 10/02/2010, n. 16, ha dato ragione al contribuente che aveva eccepito la mancata notifica dell’iscrizione ipotecaria, giustificando la sua decisione con la considerazione che al caso in esame è applicabile l'obbligo della motivazione ex art. 7, legge n. 212/2000 (statuto dei diritti del contribuente). Da ciò ne deriva che la comunicazione di iscrizione ipotecaria, che per definizione fa riferimento ad un altro atto, deve essere corredata da quest'ultimo, sì da doversi concludere per l'illegittimità dell'atto impugnato anche nel caso in cui non sia stata allegata l'iscrizione di ipoteca rilasciata dall'Ufficio del Territorio.
Inoltre, l'atto non risulta motivato nemmeno "per relationem" alle cartelle da cui trae origine posto che non risulta allegato alcun prospetto.
La logica e inevitabile conclusione di quanto sopra detto, è la nullità dell’ipoteca!

giovedì 6 maggio 2010

Condomino in conflitto d’interessi: è computato nei quorum costitutivi e deliberativi dell’assemblea?

Con sentenza del 30 gennaio 2002, n. 1201, la Cassazione ha affrontato il problema di diritto se, nel condominio di edifici, nel caso di conflitto di interessi tra il condominio e taluni partecipanti, le maggioranze costituenti il quorum deliberativo debbano essere calcolate con riferimento a tutti i condomini ed al valore dell’intero edificio; ovvero soltanto ai condomini ed ai millesimi facenti capo ai singoli partecipanti, i quali non versano in conflitto di interessi relativamente alla delibera. Ovverosia, se dal numero dei condomini e dal valore dell’intero edificio (1.000 millesimi) debba essere detratta la quota, personale e reale, rappresentata dai condomini in conflitto di interessi per ciò che concerne la proposta messa ai voti.
In tema di condominio negli edifici, l’ipotesi del potenziale conflitto di interessi tra il condominio ed i singoli partecipanti non è regolata. Per disciplinarla, dalla giurisprudenza si richiama per analogia il disposto dell’art. 2373 c.c. dettato in tema di società di capitali, che stabilisce e l’obbligo di astensione del socio, il quale si trova in posizione di conflitto (comma 1), e l’impugnabilità della delibera “se, senza il voto dei soci che avrebbero dovuto astenersi alla votazione, non si sarebbe raggiunta la necessaria maggioranza” (comma 2). Il comma ultimo dello stesso articolo introduce la distinzione tra il quorum costitutivo e il quorum deliberativo, prescrivendo che le azioni, per le quali non può essere esercitato il diritto di voto, sono tuttavia computate ai fini della regolare costituzione della assemblea.
Nel condominio, invece, non esiste un fine gestorio autonomo: la gestione delle cose, degli impianti e dei servizi comuni non mira a conseguire uno scopo proprio del gruppo e diverso da quello dei singoli partecipanti così come nelle società. La gestione delle cose, degli impianti e dei servizi comuni è strumentale alla loro utilizzazione e godimento individuali e, principalmente, al godimento individuale dei piani o delle porzioni di piano in proprietà solitaria.
Tutto ciò si riflette, anzitutto, sul conflitto di interessi, posto che per il sorgere del conflitto tra il condominio ed il singolo condomino è necessario che questi sia portatore, allo stesso tempo, di un duplice interesse: uno come condomino ed uno come estraneo al condominio (e, che l’interesse sia estraneo al godimento delle parti comuni ed a quello delle unità abitative site nell’edificio) e che i due interessi non possano soddisfarsi contemporaneamente, ma che il soddisfacimento dell’uno comporti il sacrificio dell’altro.
Orbene – avuto riguardo alla configurazione tipica dell’istituto, preordinata a tutela dei diritti soggettivi dei singoli partecipanti sulle parti comuni e in considerazione della preminente importanza delle unità immobiliari in proprietà solitaria, rispetto al godimento delle quali la gestione delle parti comuni ha carattere strumentale – le maggioranze occorrenti per la validità delle delibere in tema di gestione in nessun caso possono modificarsi in meno, neppure per contratto. Ciò si ricava con certezza dalla disposizione dettata dall’art. 1138 comma 4 c.c., secondo cui il regolamento contrattuale di condominio in nessun caso può derogare alle norme ivi richiamate, comprese quelle stabilite dall’art. 1136 c.c. concernenti la costituzione dell’assemblea e la validità delle delibere (Cass., sez. II, 9 novembre 1998, n. 11268).
Premesso, per la verità, che se l’assemblea non può deliberare soccorre la disposizione contenuta nell’art. 1105 comma 4 c.c. – applicabile al condominio in virtù del rinvio fissato dall’art. 1139 c.c. – secondo cui, quando non si formano le maggioranze, ciascun partecipante può ricorrere all’autorità giudiziaria, in tema di condominio di edifici – tenuto conto che, in caso di conflitto di interessi, al condomino sia vietato esercitare il diritto di voto – non si contempla nessuna ipotesi nelle quali, ai fini dei quorum costitutivo e deliberativo, non si debba tener conto di tutti i partecipanti e di tutte le quote e nelle quali le maggioranze possano modificarsi in meno.
La conclusione è che, in ogni caso, nel condominio negli edifici le maggioranze necessarie per approvare le delibere devono ritenersi quelle richieste dalla legge in rapporto a tutti i partecipanti ed al valore dell’intero edificio.

Il possesso non è provato con la dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà

Con sentenza del 28/04/2010, n. 10191, la Cassazione ha stabilito che la sola allegazione in giudizio dell’atto di notorietà (documento necessario ogni qualvolta un soggetto debba dichiarare stati, qualità personali e fatti che non possono essere oggetto di autocertificazione) non è sufficiente a provare il possesso.
Secondo gli Ermellini, infatti, essendo l'azione di reintegra diretta a tutelare il possesso inteso come relazione di fatto con la cosa, corrispondente all'esercizio di un diritto reale, è sempre necessario, agli effetti della tutela possessoria, la dimostrazione dell'esercizio di fatto del possesso, non potendo l'esistenza e l'estensione di questo essere desunta dal regime legale o convenzionale del diritto reale corrispondente.
Così, al fine della configurabilità dello spoglio, il quale costituisce un atto illecito che lede il diritto del possessore alla conservazione della disponibilità della cosa, obbligando chi lo commette al risarcimento del danno, con l'atto materiale deve coesistere il dolo o la colpa, la cui prova incombe su chi propone la domanda di reintegrazione, mentre rappresenta apprezzamento di fatto - riservato al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione logica e sufficiente - l'accertamento dell'esistenza dell'indicato elemento soggettivo, ed il possessore non deve provare anche la consapevolezza dell'autore della lesione di aver violato l'altrui diritto (v. Cass. n. 1274 del 1999 e Cass. n. 15381 del 2000).
Infatti (come ha statuito la stessa S.C. con la sentenza n. 26937 del 2006), l'art. 2 del d.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa) chiarisce che le dichiarazioni sostitutive di certificazioni relative a stati, qualità personali e fatti, esulano dall'ambito della prova civile, riguardando "la produzione di atti e documenti agli organi della P.A. nonché ai gestori di pubblici servizi nei rapporti tra loro e in quelli con l'utenza, e ai privati che vi consentono".
Conseguentemente, al pari della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà prevista dall'art. 4 della legge n. 15 del 1968 (v. Cass. n. 7299 del 2004), a tali dichiarazioni sostitutive deve escludersi qualsiasi rilevanza, sia pure indiziaria, nel processo civile, qualora costituiscano l'unico elemento esibito in giudizio al fine di provare un elemento costitutivo dell'azione o dell'eccezione, atteso che la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore, ai fini del soddisfacimento dell'onere di cui all'art. 2697 c.c., da proprie dichiarazioni non asseverate da terzi.

mercoledì 5 maggio 2010

Studi di settore: la rettifica del reddito non è necessaria in caso di scostamento minimo

Con sentenza n. 71 del 7/04/2010 la Commissione Tributaria provinciale BARI ha sostenuto che non può essere giustificata la rettifica del reddito di un contribuente attraverso uno scostamento minimo tra ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore.
Secondo la Commissione Tributaria di Bari, infatti, il ricorso del contribuente è fondato e va accolto in quanto egli ha evidenziato che non può ritenersi grave l’incongruenza riscontrata dalle Entrate fra i ricavi dichiarati, pari ad euro 91.168,00, e quelli accertati mediante l’applicazione dei parametri dello studio di settore, di euro 96.613,00, con una percentuale di scostamento molto bassa, pari a circa il 5,7%, seppur non compresa nell’intervallo di confidenza. Inoltre il contribuente ha evidenziato che parte dei ricavi dichiarati (pari ad euro 56.576,00) erano stati effettuati con vendite in saldo per metà dell’anno e che nell’accertamento era stato indicato un errato valore dei beni strumentali .
Per la Commissione l’avviso di accertamento emesso successivamente al rilevato scostamento è illegittimo in quanto ricalcolando lo studio con i ricavi dichiarati dal contribuente e tenuto conto di quanto affermato dallo stesso e non contestato dall’Agenzia delle Entrate nelle controdeduzioni, si ha uno scostamento minimo rilevato tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dallo studio di settore che non rappresentano una incongruenza così grave da legittimare, così come previsto dal contenuto dell’articolo 62-sexies del D.L. 331/1993, la rettifica del reddito dichiarato.
Con riferimento all’antiecoeconomicità dell’attività svolta dal contribuente ricorrente, ed eccepita dall’agente accertatore, essa appare secondo i giudici di merito un argomento metagiuridico che non considera altri fattori (anche di carattere psicologico) che possano giustificare l’esercizio di attività professionali non particolarmente remunerative e non può costituire il fondamento dell’attività accertativa dell’Agenzia delle Entrate, imperniata sugli studi di settore.

venerdì 30 aprile 2010

Multe: Sulla decurtazione dei punti decide il Tribunale

Con sentenza n. 9691 del 23 aprile 2010, le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito che spetta all’Autorità giudiziaria ordinaria la decisione sulla irregolare decurtazione dei punti della patente in pendenza del giudizio sulla legittimità della multa, precisando che «la decurtazione dei punti di patente costituisce una sanzione amministrativa conseguente la violazione di norme sulla circolazione stradale. In particolare va osservato che il meccanismo di sottrazione dei punti dalla patente di guida per effetto dell’accertamento dell’avvenuta violazione del codice della strada costituisce una misura accessoria alle relative sanzioni: ne consegue che il contenzioso relativo all’applicazione di tale sanzione accessoria, nell’ambito del quale devono ricomprendersi anche le questioni relative all’erronea decurtazione del punteggio, deve ricondursi alla giurisdizione del giudice competente in materia ai sensi degli artt. 204-bis e 205 d.lgs. n. 285/1992, come confermato anche dall’art. 216, co. 5, d.lgs. n. 285/1992, relativo alle opposizioni proponibili avverso la ulteriore misura accessoria della sospensione della patente».

mercoledì 28 aprile 2010

Termine per impugnare il licenziamento: rileva il momento della spedizione e non quello della ricezione

Con la sentenza in oggetto le Sezione Unite della Cassazione sono intervenute sulla efficacia dell’impugnazione del licenziamento operata dal lavoratore entro i 60 gg previsti dalla legge n. 604 del 1966, ma pervenuta al datore di lavoro successivamente, risolvendo la problematica in senso favorevole al lavoratore.
Infatti, con sentenza del 14/04/2010, n. 8830, gli “Ermellini” hanno osservato che l'impugnazione del licenziamento, ai sensi dell'art. 6 della legge n. 604 del 1966, formulata mediante dichiarazione spedita al datore di lavoro con missiva raccomandata a mezzo del servizio postale, deve intendersi tempestivamente effettuata allorché la spedizione avvenga entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento o dei relativi motivi, anche se la dichiarazione medesima sia ricevuta dal datore di lavoro oltre il termine menzionato, atteso che, in base ai princìpi generali in tema di decadenza, enunciati dalla giurisprudenza di legittimità e affermati, con riferimento alla notificazione degli atti processuali, dalla Corte costituzionale -l'effetto di impedimento della decadenza si collega, di regola, al compimento, da parte del soggetto onerato, dell'attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione demandato ad un servizio -idoneo a garantire un adeguato affidamento- sottratto alla sua ingerenza, non rilevando, in contrario, che, alla stregua del predetto art. 6, al lavoratore sia rimessa la scelta fra più forme di comunicazione, la quale, valendo a bilanciare la previsione di un termine breve di decadenza in relazione al diritto del prestatore a conservare il posto di lavoro e a mantenere un'esistenza libera e dignitosa (art. 4 e 36 Cost.), concorre a mantenere un equo e ragionevole equilibrio degli interessi coinvolti.

giovedì 22 aprile 2010

Il condomino può apporre targhe e insegne sulla facciata dell’edificio?

L’apposizione sulla facciata dell'edificio condominiale di targhe, insegne pubblicitarie e cartelli per dare risalto alla propria attività professionale o commerciale costituisce normale esercizio del diritto di usare la cosa comune poiché non ne altera la naturale e specifica destinazione di sostegno dell'edificio condominiale, sempre che non impedisca agli altri condomini di fare uguale uso del muro (Cass. 21/08/2003, n. 12298).
Tuttavia, ostacoli potrebbero derivare dal regolamento di condominio di natura contrattuale, qualora prevedesse norme che accolgono una nozione più severa di “decoro architettonico”, impedendo qualsiasi mutamento dei muri perimetrali e dell'aspetto generale dell'edificio.
Fatta salva quest’eccezione, gli unici divieti esistenti sono solo quelli sanciti dall'art. 1102 c.c., il quale consente al condomino di servirsi delle parti comuni dell’edificio a condizione che non impedisca agli altri un uso conforme ai loro diritti.
Il diritto spettante al proprietario, inoltre, è riconosciuta anche al conduttore dell’immobile dato in locazione, il quale ha la facoltà di apporre sul muro perimetrale dell'edificio targhe e insegne, sempre che ciò non sia stato escluso da apposita clausola contenuta nel contratto di locazione (Cass. 3/12/2002, n. 17156).
Infine, al pari di qualunque altra atto che dovesse ingenerare conflitto tra tutti o alcuni dei condomini, qualora la richiesta di apporre targhe o insegne dovesse pervenire da più condomini, è l'assemblea che ha il dovere di intervenire al fine di eliminare possibili conflitti, prescindendo da chi abbia utilizzato per primo la facciata condominiale e disponendo i criteri che dovranno essere adottati anche in futuro.

lunedì 19 aprile 2010

Sono nulle le multe senza sottoscrizione autenticata dell'agente accertatore

Con sentenza del 18 gennaio 2010, n. 8190, il Giudice di Pace di Lecce osserva che la normativa del vigente Codice della Strada (D.Lgs. n. 285/1992) e del relativo regolamento (D.P.R. n. 495/1992) stabilisce all'art. 385, comma 3°, che il verbale redatto dall'organo accertatore rimane agli atti dell'Ufficio o Comando, mentre ai soggetti ai quali devono essere notificati gli estremi viene inviato uno degli originali o copia autenticata a cure del responsabile dello stesso Ufficio o Comando; invece, nel caso di verbali redatti con sistemi meccanizzati o di elaborazione dati, essi sono notificati con il modulo prestampato recante l’intestazione dell'Ufficio o Comando predetti.
Il sistema di contestazione, dunque, è diverso, in quanta contempla l'invio di uno degli originali del verbale redatto dall'organo accertatore, oppure di copia autenticata, dalla quale deve, dunque, risultare (ancorchè come meramente riprodotta nella copia medesima) la sottoscrizione dell'agente accertatore, giusta Ia previsione di cui al comma 4° dell'art. 385 D.P.R. n. 495/1992, che — a sua volta — fa espresso riferimento al precedente art. 383, il cui comma 4° testualmente statuisce: Il verbale deve in genere essere conforme al modello allegato, e fa parte integrante del presente regolamento, se redatto con sistemi meccanizzati o di elaborazione dati, deve riportare le stesse indicazioni contenute nel modello", compresa, naturalmente, la sottoscrizione dell'agente accertatore, come si ricava agevolmente dal fac-simile di modello allegato al regolamento d'esecuzione del Codice della Strada.
Né tale disciplina può ritenersi odiernamente modificata da quanto stabilito dall'ultimo periodo dell'art. 3, comma 2; L. 39/1993 (Se per la validità di tali operazioni e degli atti emessi sia prevista l'apposizione di firma autografa, la stessa è sostituita dall'indicazione a stampa, sul documento prodotto dal sistema automatizzato, del nominativo del soggetto responsabile), stante l'entrata in vigore dell'art.15 L: 59/1997 e dei regolamenti attuativi in esso previsti, secondo i quali la firma a stampa, in sostituzione di quella autografa, può essere apposta solo per gli atti che non richiedano alcuna previa valutazione e non anche per gli atti che debbano essere motivati in relazione alle particolarità del caso concreto, come nei verbali di accertamento e contestazione di violazioni al Codice della Strada (Cass. Civ., Sez. I, 28/12/2000, n. 16204 — conformi: Cass. Civ., Sez. I, 03/03/1998, n. 2341; Cass. Civ., Sez. I, 07/05/1999, n. 4567).
E' ormai concetto consolidato della giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ., Sez. IIi, 15/04/1999, n. 3741; Cass. Civ., Sez. I, 26/06/1992, ti 8031; Cass. Civ., Sez. I, 29/12/1989, n. 5826) che, dinanzi alle contestazioni dell'opponente, è onere dell'ente opposto fornire prova della legittimità del suo operato e della fondatezza della sua pretesa.

venerdì 16 aprile 2010

La concessione edilizia può essere impugnata anche dal “vicino”!

Con Decisione del 16/03/2010, n. 1535, il Consiglio di Stato ribadisce che secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale la legittimazione ad impugnare una concessione edilizia deve essere riconosciuta al proprietario di un immobile sito nella zona interessata alla costruzione o comunque a chi si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona stessa, senza che sia necessario dimostrare ulteriormente la sussistenza di un interesse qualificato alla tutela giurisdizionale.
Pertanto, è irrilevante il fatto che la proprietà dei ricorrenti sia separata da un tratto di strada pubblica o non sia direttamente confinante con l'area interessata all'intervento - essendo evidente che la condizione di stabile collegamento tra gli immobili non postula necessariamente la loro adiacenza, ma ne presuppone la semplice prossimità – risultando sufficiente che almeno un lato della proprietà degli stessi ricorrenti si collochi nelle immediate vicinanze dell'impianto interessato alle opere per cui è causa.
L'interpretazione dell'art. 7, L. n. 241 del 1990 non può non prendere le mosse dal fatto che tale norma non circoscrive affatto l'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento ai soli destinatari dei provvedimenti che l'Amministrazione si accinge ad emanare - soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti - o a coloro che siano comunque implicati nella procedura - quelli che per legge debbono intervenirvi, ma lo estende anche ai soggetti, individuati o facilmente individuabili, che dai suddetti provvedimenti possano ricevere pregiudizio.

giovedì 15 aprile 2010

A chi pagare il canone dell’immobile promesso in vendita?

Successivamente a forti contrasti giurisprudenziali e dottrinali, la Cassazione è intervenuta a Sezioni Unite sull’esecutività o meno della sentenza di primo e secondo grado posta in essere in adempimento del contratto preliminare avente ad oggetto un immobile, con l’importante corollario del pagamento dei canoni di locazione dello stesso bene.
Infatti, con la sentenza del 22 febbraio 2010, n. 4059, uniformandosi alla pronuncia del 6/4/2009 n. 8250, i Supremi Giudici hanno chiarito che la sentenza che dispone l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre, ex art. 2932 c.c., produce i propri effetti solo dal momento del passaggio in giudicato; ne consegue che, quando detta sentenza abbia subordinato l'effetto traslativo al pagamento del residuo prezzo, l'obbligo di pagamento in capo al promissario acquirente non diventa attuale prima dell'irretrattabilità della pronuncia giudiziale, essendo tale pagamento la prestazione corrispettiva destinata ad attuare il sinallagma contrattuale.
Ciò in quanto non è riconoscibile l’esecutività provvisoria, ex art. 282 cod proc. civ., del capo decisorio relativo al trasferimento dell’immobile contenuto nella sentenza di primo grado resa ai sensi dell’articolo 2932 c.c., né è ravvisabile l’esecutività provvisoria della condanna implicita al rilascio dell’immobile in danno del promittente venditore, scaturente dalla suddetta sentenza nella parte in cui dispone il trasferimento dell’immobile, producendosi l’effetto traslativo della proprietà del bene solo dal momento del passaggio in giudicato di detta sentenza con la contemporanea acquisizione al patrimonio del soggetto destinatario della pronuncia. Ne consegue che qualora l’immobile sia oggetto di locazione, il conduttore è obbligato a pagare il canone al promittente venditore sino a quando la sentenza che sostituisce il contratto definitivo passa in giudicato.

Le domande di riduzione del prezzo e di eliminazione del vizio sono compatibili con il preliminare

Con sentenza del 26 gennaio 2010, n. 1652, la Cassazione conferma i principi più volte affermati dalla stessa Corte ribadendo l'autonomia della domanda di riduzione del prezzo nell’ambito del contratto preliminare di vendita, nel caso che la cosa sia affetta da vizi, in quanto il promissario acquirente che non voglia domandare la risoluzione del contratto, può agire contro il promittente per l'adempimento, chiedendo, anche disgiuntamente dall'azione prevista dall'art. 2932 c.c., l'eliminazione dei vizi, oppure, in alternativa, la riduzione del prezzo.
Tali due azioni, infatti, mirando entrambe ad assicurare, in modo alternativo tra loro, il mantenimento dell'equilibrio del rapporto economico di scambio previsto dai contraenti, costituiscono mezzi di tutela di carattere generale che, in quanto tali, devono ritenersi utilizzabili anche per il contratto preliminare, non rinvenendosi nel sistema positivo, né in particolare nel disposto dell'art. 2932 c.c., ragioni che impediscano di estendere anche a tale tipo di contratto la tutela stabilita, a favore della parte adempiente dai principi generati in tema di contratti a prestazioni corrispettive. La pronunzia del giudice assume in tal caso la funzione di un legittimo intervento riequilibrativo delle contrapposte prestazioni, rivolto ad assicurare che l'interesse del promissario acquirente alla sostanziale conservazione degli impegni assunti non sia eluso da fatti ascrivibili al promittente venditore (tra le tante, sentenze 2175/2008 n. 12852; 15/12/2006 n. 26943; 29/10/2003 n. 16236; 17-4-2002 n. 5509; 3-1-2002 n. 29; 8-10-2001 n. 12323; 19-12-2000 n. 15958; 19-4-2000 n. 5121).
Va altresì aggiunto che, come precisato nella giurisprudenza di legittimità, in materia di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto la condizione di identità della cosa oggetto del trasferimento con quella prevista nel preliminare non va intesa nel senso di una rigorosa corrispondenza, ma del rispetto dell'esigenza che il bene da trasferire non sia oggettivamente diverso per struttura e funzione da quello considerato e promesso e che pertanto in presenza di difformità non sostanziali, non incidenti sull'effettiva utilizzabilità del bene, ma soltanto sul relativo valore, il promissario acquirente non resta soggetto alla sola alternativa della risoluzione del contratto o dell'accettazione senza riserva della cosa viziata o difforme, ma può esperire l'azione di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere il contratto definitivo a norma dell'art. 2932 c.c. chiedendo cumulativamente e contestualmente l'eliminazione delle accertate difformità o la riduzione del prezzo (sentenze citate e 16/7/2001 n. 9636; 18-6-1996 n. 5615; 26-1-1995 n. 947; 24-11-1994 n. 9991; 26-4- 1993 n. 4895).

mercoledì 14 aprile 2010

Illegittimo il licenziamento per giusta causa senza preventiva contestazione dell’addebito

Con sentenza del 17 marzo 2010, n. 6437, la Cassazione pone un freno ai licenziamenti “facili” operando una corretta interpretazione della legislazione in materia, chiarendo che il licenziamento motivato da una condotta colposa o comunque manchevole del lavoratore, indipendentemente anche dalla sua inclusione o meno tra le misure disciplinari della specifica disciplina del rapporto, deve essere considerato di natura disciplinare e, quindi, deve essere assoggettato alle garanzie dettate in favore del lavoratore dal secondo e terzo comma dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970 circa la contestazione dell'addebito ed il diritto di difesa” (v. fra le altre Cass. 13-8-2007 n. 17652, Cass. S.U. 1-6-1987 n. 4823, Cass. S.U. 16-12-1987 n. 9302, Cass. 5-12-1989 n. 5365, vedi anche, fra le altre, sulle conseguenze della violazione delle dette garanzie, Cass. S.U. 26-4-1994 n. 3965, Cass. 19-6-1998 n. 6135 e Cass. 12-4-2003 n. 5855). La mancanza di detta preventiva contestazione, pertanto, causa la nullità del licenziamento e il diritto del lavoratore ad essere reintegrato nel proprio posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno.

Requisiti per l’assoggettabilità IRAP e nullità della cartella non notificata

La Commissione tributaria regionale Abruzzo, con Sentenza dell’08/01/2010, n. 3, si pronuncia in materia di notifica della cartella esattoriale e sui requisiti che deve possedere un lavoratore autonomo per essere assoggettato all’IRAP, disponendo che lo scopo proprio della notifica della cartella di pagamento, non preceduta dalla notifica dell'avviso di accertamento, e' quello di portare a conoscenza del contribuente che l'Ufficio finanziario ha accertato nei suoi confronti un maggior credito d'imposta di cui chiede il pagamento, e non quello di porre il contribuente nelle condizioni di ricorrere avverso tale accertamento, anche se ne costituisca un antecedente.
La notifica rituale, in quanto effettuata ai sensi degli articoli 26, D.P.R. n. 602/1973 e 60, D.P.R. n. 600/1973, è una fase essenziale del perfezionamento dell’atto e, pertanto, l’atto amministrativo non notificato al domicilio risultante dalla dichiarazione annuale relativa all’anno d’imposta di pertinenza va ritenuto giuridicamente inesistente con conseguente prescrizione del credito d’imposta e decadenza dal diritto a richiederne il pagamento al contribuente da parte dell’amministrazione finanziaria, in caso di scadenza dei termini di legge.
Inoltre, la proposizione del ricorso ad opera del contribuente avverso tale atto non sana il vizio per raggiungimento dello scopo (ovvero la conoscenza dell’atto), in quanto la sanatoria prevista dall'art. 156 e seguenti c.p.c. vale solo per gli atti processuali e non per quelli sostanziali come gli atti impugnabili nel processo tributario, tra i quali rientra la cartella di pagamento.
La Commissione Tributaria Regionale, infine, entra nel merito ribadendo l’orientamento giurisprudenziale avallato dalla sentenza n. 156/2001 della Corte Costituzionale, e riguardante i presupposti per l’assoggettamento all’IRAP, chiarendo che il requisito della “autonoma organizzazione” del lavoratore autonomo diverso dall’impresa commerciale è integrato quando il contribuente sia responsabile dell’organizzazione ed eserciti l’attività con impiego di beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività auto-organizzata oppure si avvalga, in modo non occasionale, del lavoro altrui.
La sussistenza del requisito dell’autonoma organizzazione è oggetto di valutazione, caso per caso, da parte del giudice di merito, ed è onere del contribuente, in sede di istanza di rimborso dell’imposta non dovuta, fornire la prova dell’assenza dei presupposti impositivi dell’IRAP.

martedì 13 aprile 2010

Accertamenti fiscali su conti correnti: il contribuente deve provare che le operazioni non sono imponibili

Una nuova decisione della Cassazione conferma il regime più gravoso dell’onere probatorio a carico del contribuente, e si pone così nel medesimo solco di precedenti pronunce della stessa Corte e dei Giudici Tributari.
Con sentenza del 31 marzo 2010, n. 7813, infatti, gli Ermellini ribadiscono che in tema di processo tributario si opera un'inversione dell'onere della prova, che viene, appunto, spostato sul contribuente nei confronti del quale sia in corso un accertamento tributario fondato su verifiche inerenti conti correnti bancari. In siffatta ipotesi, infatti, spetta al contribuente dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non riguardano operazioni imponibili mentre, l'ufficio finanziario accertante assolve ai propri oneri probatori semplicemente allegando dati ed elementi risultanti dai nominati conti bancari.

Il contratto assicurativo “senza rischi” per l’assicuratore è nullo.

E’ noto che alcune assicurazioni redigono dei contratti in modo da ridurre fortemente il rischio a loro carico. Proprio su questo argomento si è recentemente pronunciata la Cassazione che ha stabilito la nullità di tali contratti.
Infatti, con sentenza del 07/04/2010, n. 8235, i Supremi Giudici chiariscono che nel contratto di assicurazione sono da considerare clausole limitative della responsabilità, per gli effetti delineati dall'art. 1341 cod. civ. (con conseguente sottoposizione delle stesse alla necessaria e specifica approvazione preventiva per iscritto), quelle clausole che limitano le conseguenze della colpa o dell’inadempimento o che escludono il rischio garantito mentre attengono all'oggetto del contratto, e non sono perciò, assoggettate al regime previsto dal secondo comma di detta norma, le clausole che riguardano il contenuto ed i limiti della garanzia assicurativa e, dunque, specificano il rischio garantito.
Nella fattispecie in esame, sotto il titolo "delimitazione dell’assicurazione - esclusioni”, non si ricomprendono nel rischio assicurato “i danni provocati da condutture ed impianti sotterranei in genere, a fabbricati ed a cose in genere dovuti ad assestamento, cedimenti, franamento o vibrazioni del terreno da qualsiasi causa determinati”.
Un’ampia casistica di esclusione della responsabilità e di attività ipotizzabili nell’esercizio di impresa edile, sì da risultare la stessa clausola finalizzata non ad una consentita “specificazione” del rischio contrattuale bensì ad una non corretta esclusione in toto dì quest’ultimo, incide in concreto negativamente sulla sussistenza della causa del contratto di assicurazione, che è destinato proprio a garantire i rischi collegati all’attività imprenditoriale in questione.
Pertanto, configura una non consentita limitazione di responsabilità, ex art. 1229 c.c. la clausola di un contratto assicurativo che, nell’escludere l’assicurazione del relativo rischio, ipotizza (come nel caso di specie, con l’espressione testuale “da qualsiasi causa determinati”) in modo ampìo ed indiscriminato la non “comprensione” dei danni nell’oggetto del contratto stesso.

lunedì 12 aprile 2010

Fisco: a carico del contribuente esiste un onere della prova più rigoroso

La Commissione Tributaria regionale Lazio, con Sentenza del 27/01/2010, n. 9, ha disposto che la rigorosità dei criteri di cui agli studi di settore rende l'onere della prova particolarmente rigido a carico del contribuente. Infatti, una volta dimostrata come corretta la metodologia di calcolo applicata (attraverso gli studi di settore), devono sussistere comprovate ragioni specifiche per ritenere superato nel quantum l'accertamento e ritenere giustificata da ragioni obiettive, direttamente incidenti sulla produzione del reddito, la differenza fra quanto dichiarato dal contribuente e quanto invece accertato in sede induttiva
La documentazione allegata dal contribuente (ad esempio: copia del modello CUD per l'annualità contestata, copia dello scioglimento della società di fatto che gestiva l'attività e copia della dichiarazione di inizio e cessazione dell'attività, più le fatture emesse per la stessa annualità), pertanto, può non essere idonea a far ritenere esperito con successo l'onere della prova, particolarmente rigido, posto a carico del contribuente.

Indennità per eccessiva durata dei processi: sussiste anche per la parte soccombente e in caso di lite collettiva

Con sentenza del 2 aprile 2010, n. 8179, la Cassazione ha stabilito che la sofferenza morale prodotta nelle parti dall'eccessivo protrarsi del processo va riconosciuta anche nel caso di lite promossa collettivamente, nel caso di specie in corrispondenza ad una rivendicazione di categoria di taglio sindacale, così come l'esito sfavorevole della lite non esclude il diritto all'equa riparazione per il ritardo, se non nei casi in cui sia ravvisabile un vero e proprio abuso del processo, configurabile allorquando risulti che il soccombente abbia promosso una lite temeraria o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire, con tattiche processuali di varia natura, il perfezionamento della fattispecie di cui alla legge n. 89 del 2001 (indennità per l’eccessiva durata dei processi). Nè d'altra parte può gravarsi l'interessato di oneri di prova o specifica allegazione di circostanze a sostegno della deduzione del sofferto danno morale, incompatibili con la presunzione di sussistenza di tale danno.

giovedì 8 aprile 2010

Privacy: illegittimo l’uso dei dati tratti dal P.R.A. per scopi pubblicitari

Successivamente alle numerose segnalazioni che denunciavano la pratica di alcune imprese di trarre dal Pubblico Registro Automobilistico i dati personali per fini promozionali, il Garante della Privacy è intervenuto sulla problematica con il provvedimento dell’11/03/2010, n. 1709295 dichiarandola contraria alla legge.
L’autorità citata, infatti, ha dichiarato legittimo l'utilizzo, senza il consenso degli interessati, dei dati personali provenienti dal Pubblico Registro Automobilistico, ove effettuato dalle società del settore automobilistico e dalle società private di ricerche e consulenze economico-sociali per inviare comunicazioni di particolare interesse per gli utenti, ivi comprese quelle concernenti l'imminente scadenza delle revisioni auto e quelle relative ad attività di ricerca economico-sociale o statistica;
nel contempo, però, ha ritenuto vietato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 144 e 154, comma 1, lett. d) del Codice, alle società del settore automobilistico ed alle società private di ricerche e consulenze economico-sociali di trattare ulteriormente i dati personali acquisiti presso il Pubblico Registro Automobilistico per finalità di comunicazione commerciale e per l'invio di materiale pubblicitario, in assenza di consenso dell'interessato.

Ripartizione spese condominiali: quando le delibere sono nulle o annullabili

Con sentenza del 19 marzo 2010, n. 6714, la Cassazione interviene ancora una volta sull’argomento in oggetto, disponendo che in materia di delibere condominiali aventi ad oggetto la ripartizione delle spese comuni, occorre distinguere quelle con le quali l'assemblea stabilisce o modifica i criteri di ripartizione in difformità da quanto previsto dall'art. 1123 c.c. o dal regolamento condominiale contrattuale - essendo in tal caso necessario, a pena di radicale nullità, il consenso unanime dei condomini - dalle delibere con le quali vengono in concreto ripartite le spese medesime, poiché soltanto queste ultime, qualora adottate in violazione dei criteri già stabiliti, devono considerarsi annullabili e la relativa impugnazione deve essere proposta nel termine di decadenza di trenta giorni.
Infatti, l'adozione di criteri diversi da quelli previsti dalla legge o dal regolamento contrattuale, incidendo sui diritti individuali dei singoli condomini, può essere assunta soltanto con una convenzione alla quale aderiscano tutti i condomini, non rientrando nelle attribuzioni dell'assemblea che concernono la gestione delle cose comuni.

Indennità di rischio radiologico: ecco a chi spetta

L’indennità di rischio radiologico in misura piena spetta al personale medico e tecnico di radiologia appartenente alle amministrazioni pubbliche e private.
Con l’interpello del 02/04/2010, n. 6, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali risponde al Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro in merito all’aumento dell’indennità di rischio radiologico, previsto dall’art. 1, comma 2, della L. n. 460/1988, specificando che la Corte costituzionale (sentenza del 20 luglio 1992 n. 343) ha inteso la disposizione suddetta nel senso che l’indennità piena deve riconoscersi “anche a quei lavoratori che, pur non appartenendo al settore radiologico, sono esposti ad un rischio non minore, per continuità ed intensità, di quello sostenuto dal personale di radiologia”.
Si vuole, sostiene la Corte Costituzionale, differenziare il personale sottoposto con continuità al rischio da quello esposto in modo discontinuo, a rotazione o temporaneo, rendendo necessario un nuovo accertamento della commissione (art. 58, comma 4, del D.P.R. n. 270/1987).
Pertanto, su un piano generale ed astratto, al personale estraneo alla struttura di radiologia che, per le mansioni in concreto espletate, è sottoposto in maniera continuativa e permanente alle radiazioni nocive, compete la medesima indennità prevista per il personale di radiologia.
L’unica diversità che residua nei rapporti tra il personale di radiologia ed il personale diverso che è concretamente esposto in maniera continua e permanente al rischio è costituita dunque dal regime probatorio. Mentre per il primo è necessaria e sufficiente la qualifica rivestita, cui l’ordinamento collega una presunzione assoluta circa l’esposizione al rischio, per il secondo è indispensabile un accertamento sulle situazioni concrete (modalità, tempi, orari ed intensità dell’esposizione), ad opera della citata commissione.
Pertanto il riconoscimento del diritto all’indennità in misura piena deve “passare” per il settore pubblico, fatta eccezione per il personale tecnico di radiologia, attraverso il filtro degli “organismi e commissioni operanti a tal fine nella sede aziendali in base alle vigenti disposizioni”, al fine di verificare se il singolo dipendente sia, in via di fatto, esposto in maniera continuativa e permanente al rischio radiologico, non solo sulla base della qualifica, ma dell’effettiva esposizione a rischio da radiazione.
Nel settore privato il riconoscimento all’indennità sussiste per i lavoratori che, sulla base degli accertamenti compiuti dall’esperto qualificato (paragrafo 5 dell’Allegato III del D.Lgs. n. 230/1995 e ss.mm.), sono classificati in categoria A e quindi suscettibili di superare, in un anno solare, il valore di 6 mSv di dose efficace.
La demarcazione posta dall’art. 61 del CCNL sanità privata tiene conto della diversa frequenza di esposizione esistente fra personale esposto in categoria “A” e “B” tenuto conto che la durata all’esposizione e le modalità lavorative risultano fattori determinanti per la quantificazione del livello di dose assorbito e quindi del livello di rischio espositivo. Nel settore pubblico tale valutazione deve essere posta dagli organismi individuati a norma dell’art. 5 del contratto collettivo nel rispetto dei principi definiti dalla norma statale.

martedì 6 aprile 2010

L’assegno postdatato con bollo irregolare non è titolo esecutivo

L'assegno postdatato, non ammesso nel nostro ordinamento, usurpa le funzioni proprie della cambiale e sfugge alla relativa tassa sul bollo.
Con sentenza 3 marzo 2010, n. 5069, la Cassazione ha chiarito che all’assegno con bollo irregolare (in quanto postdatato), non può essere riconosciuta natura di titolo esecutivo, nemmeno se lo stesso successivamente venga regolarizzato sotto il profilo fiscale.
Del resto, il principio della necessità dell'originaria osservanza della legge sul bollo, ai fini del riconoscimento come titolo esecutivo dell'assegno bancario (oltre che della cambiale e del vaglia cambiario), è sancito espressamente dall'art. 20 del D.P.R. 26.10.1972 n. 642 il quale, fra l'altro, dispone, al terzo comma, che la relativa inefficacia deve essere rilevata d'ufficio dai giudici, conformemente a quanto prevedeva il terzo comma dell’art. 118.
Infatti, se è vero che la postdatazione non induce, di per sé, la nullità dell'assegno bancario, ma comporta soltanto la nullità del relativo patto (di postdatazione) per contrarietà a norme imperative, poste a tutela della buona fede e della regolare circolazione dei titoli di credito, consentendo al creditore di esigere immediatamente il suo pagamento (v. anche Cass. 6.6.2006 n. 13259; Cass. 25-5-2001 n. 71359); è altrettanto vero - per le ragioni esposte - che lo stesso non può valere, però, come titolo esecutivo.

mercoledì 31 marzo 2010

Furto nel parcheggio dell’Hotel: va risarcito anche se l'auto non è di proprietà

Con sentenza del 12/03/2010, n. 6048, la Cassazione ha disposto che l'accoglimento della domanda risarcitoria del depositante (ossia di chi deposita, come il cliente di un Hotel) non e' legata alla sussistenza di "una corrispondente diminuzione patrimoniale", non patita dal ricorrente per non essere proprietario del bene. Il titolare dell'obbligazione risarcitoria e' il depositante, trovando la prestazione sostitutiva il suo fondamento proprio nel suo mancato, diligente adempimento dell'obbligazione contrattuale.
Ciò detto, resta tuttavia impossibile attribuire al ricorrente il controvalore dell'autovettura, posto che non sussiste in suo favore la corrispondente diminuzione patrimoniale; va detto, inoltre, che dall'autorizzazione ad usare il veicolo rilasciato dalla società concedente in leasing e conduttrice del veicolo non risulta che l'appellante abbia affrontato un qualche esborso per assicurarsi il godimento dell'auto.
E' principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di legittimità quello per cui soggetto attivo dell'obbligazione di restituzione insita nel contratto di deposito e' il depositante, senza che il depositario (nel caso in esame l’Hotel) possa esigere la prova della proprietà della cosa depositata.
Ad eguale conclusione deve pervenirsi anche con riferimento all'obbligazione sostitutiva, avente ad oggetto l'equivalente pecuniario della cosa depositata, che incombe al depositario nel caso di perdita a lui imputabile e che, derivando egualmente dal contratto, egli non può esimersi dall'adempiere, eccependo che la cosa non era di proprietà dell'altro contraente.
Quindi, nel contratto di deposito, la dimostrazione della proprietà del bene, da parte del depositante, non ha alcun rilievo sotto il profilo della legittimazione a richiederne la restituzione; od, in caso di sua impossibilità, ad esigere la prestazione sostitutiva.
Il depositante e' quindi, il titolare dell'obbligazione sostitutiva, mentre il proprietario rimane estraneo al rapporto contrattuale di deposito.
D'altra parte, a volere ragionare a contrario, l'obbligazione sostitutiva nascente dalla mancata restituzione del bene per fatto imputabile al depositario, - nei casi in cui il depositante non sia anche il proprietario - sarebbe priva di titolare, con la conseguenza che il depositario, in base al contratto di deposito, non risponderebbe ad alcuno.
L'obbligo di custodia esplica, quindi, i suoi effetti unicamente nei confronti del depositante, cui deve essere fatta la restituzione della res depositata; ed allo stesso spetta, in difetto di restituzione, il risarcimento dei danni.

martedì 30 marzo 2010

Made in Italy ma prodotto in Cina? E’ pubblicità ingannevole!

Com’è noto, buona parte dei beni di consumo è prodotta all’estero a scapito del cosiddetto “made in Italy”. Alcuni imprenditori, pertanto, al fine di renderli maggiormente “appetibili”, dichiarano con apposite etichette che gli stessi sono realizzati in Italia.
Secondo il Consiglio di Stato, Sez. VI, 22 marzo 2010, n. 1629, è ingannevole il messaggio pubblicitario che attesti (falsamente) la provenienza di un prodotto commerciale, in realtà fabbricato interamente all’interno di stabilimenti situati in Cina, da un’azienda certificata ISO 9001. Infatti, al fine di escludere la ricorrenza della fattispecie prevista dall’art. 1 del D.Lgs. n. 74 del 1992, è indispensabile che il messaggio pubblicitario, che ha come scopo quello di evidenziare il "valore aggiunto" che dovrebbe rendere più appetibile il prodotto reclamizzato rispetto ai concorrenti, corrisponda alle reali caratteristiche del prodotto stesso, indipendentemente dalle competenze del pubblico al quale esso si rivolge.

Pubblicità ingannevole e promozione telefonica

Nella pratica commerciale è consueto pubblicizzare determinati prodotti invitando telefonicamente i potenziali clienti in Fiere od Hotel promettendo loro degli omaggi. Questa forma di marketing è stata oggetto di una recente sentenza del Tar di Roma che ha escluso che rientri nella cosiddetta “pubblicità ingannevole”.
Infatti, con sentenza del 19/03/2010, n. 4323, il Giudice Amministrativo ha statuito che - pur volendo dare credito alle sole dichiarazioni della consumatrice segnalante, circa il fatto che alla stessa sarebbe stato comunicato di potere ottenere le scarpe “semplicemente recandosi alla fiera di Forlì in data 26 maggio 2007, senza nessun altro impegno” - nessun consumatore medio, ragionevolmente attenuto ed avveduto (secondo il modello che si ritrae dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di pubblicità ingannevole, successivamente recepito ed esteso dalla direttiva sulle pratiche commerciali sleali a tutta la gamma delle condotte dalla stessa considerate), possa ritenere che il ritiro di un omaggio, dichiaratamente di natura promozionale, nel corso di una esposizione commerciale, non comporti, quantomeno, l’onere, al fine di assicurarsi il suddetto beneficio, di assistere alla presentazione di un qualche prodotto tra quelli commercializzati dalla società.
In altre parole, il consumatore medio si deve ritenere in grado di comprendere che l’omaggio promesso è subordinato alla presentazione dell’evento pubblicitario organizzato e non può pretenderlo che alla fine dello stesso, senza che ciò integri un’ipotesi di pubblicità ingannevole.

giovedì 25 marzo 2010

La Cassazione si pronuncia sulla condotta che integra violazione degli obblighi familiari

Con sentenza del 5 marzo 2010, n. 8998, i Supremi Giudici della Cassazione sono intervenuti in materia di violazione degli obblighi familiari da parte dell’ex coniuge e genitore non affidatario, stabilendo che ai fini dell'integrazione del reato di cui all'art. 570, comma 2, n. 2, c.p., è sufficiente che il soggetto obbligato a garantire i mezzi di sussistenza al minore li abbia negati determinando, in astratto, la nascita della situazione di pericolo, senza che assuma alcuna rilevanza la circostanza che altri soggetti intervengano, provvedendo in via sussidiaria ed impedendo, così, che il pericolo si trasformi in vero e proprio danno.
La nozione penalistica di "mezzi di sussistenza" di cui all'art. 570, comma 2, n. 2 c.p. (dettata quindi in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare), ha portata diversa dal "mantenimento" civilistico e comprende, accanto al vitto, l'alloggio ed il vestiario - mezzi, questi per la sopravvivenza vitale - anche altri beni che, in considerazione delle reali capacità economiche e delle concrete capacità del minore, risultano importanti ai fini di un corretto sviluppo psico - fisico, beni che, comunque, rispondono ad esigenze qualificabili come secondarie. Tale ultima peculiarità comporta che il soddisfacimento di queste esigenze è comunque subordinato al soddisfacimento di quelle, primarie, legate alla sopravvivenza vitale e, quindi, esula dalla disponibilità del soggetto chiamato a provvedere, la scelta di rovesciare l'ordine fisiologico così determinato provvedendo solo ed esclusivamente a soddisfare bisogni secondari, anche se attuata attraverso elargizioni economiche anche superiori all'entità stessa dell'assegno che gli compete corrispondere. In conclusione, ai fini dell'esclusione del reato di cui all'art. 570, comma 2, n. 2, c.p., è necessario che l'obbligazione venga adempiuta attraverso la dazione di quel bene o di quel valore che il giudice della separazione o del divorzio ha ritenuto di determinare in considerazione del supremo interesse del soggetto debole, oggetto di tutela privilegiata. Non è, quindi, in termini più specifici, facoltà dell'obbligato sostituire la corresponsione della somma dovuta a titolo di mantenimento con la dazione di beni, anche costosi, che a suo unico giudizio concorrerebbero in maniera soddisfacente alla soddisfazione dei bisogni del minore. Spetta solo al coniuge affidatario, infatti, l'utilizzo in concreto della somma versata in favore della prole, godendo in tale utilizzo di una discrezionalità comunque limitata dai paletti posti dallo stesso art. 570 c.p.

Se un soggetto è debitore e creditore verso due settori della P.A., questa può opporre la compensazione

Non è raro che un soggetto vanti un credito verso un settore della Pubblica Amministrazione (es. credito d’imposta) e un debito verso un altro (es. oneri concessori). Ebbene, in questi casi la P.A. può sospendere il pagamento per opporre successivamente la compensazione e stabilire se sussista una differenza da pagare.
Con sentenza del 12 marzo 2010, n. 6038, gli Ermellini hanno stabilito che ai sensi dell'art. 69, comma 6, del R.D. n. 2440 del 1923 un'amministrazione dello Stato che abbia a qualsiasi titolo ragioni di credito verso aventi diritto a somme dovute da altre amministrazioni, può richiedere la sospensione del pagamento di dette somme. Tale disposizione configura uno strumento cautelare provvisorio diretto a legittimare la sospensione temporanea del pagamento di debiti liquidi ed esigibili da parte dello Stato a salvaguardia dell'eventuale compensazione con crediti, anche non attualmente liquidi e esigibili, che la stessa o altre branche dell'amministrazione statale, considerate come organi di una stessa persona giuridica, vantino nei confronti del medesimo soggetto, ma essa, facendo esclusivo riferimento ad "un'amministrazione dello Stato" quale soggetto titolare del potere eccezionale in discorso, in mancanza di una normazione espressa, non può considerarsi applicabile ad amministrazioni diverse.

mercoledì 24 marzo 2010

Separazione: la divisione dei beni può essere domandata in pendenza del procedimento di separazione

Con la separazione personale, la comunione legale dei beni esistente tra i coniugi lascia il posto alla comunione ordinaria che può essere sciolta su istanza delle parti. Uno dei problemi sorti sull’argomento riguarda la possibilità di domandare la divisione giudiziale dei beni prima che il procedimento di separazione si concluda con l’omologazione degli accordi o con il passaggio in giudicato della sentenza del Tribunale.
Ebbene, con sentenza del 26 febbraio 2010 n. 4757, la Cassazione è intervenuta sull’argomento chiarendo ancora una volta che la Giurisprudenza costante di questa Corte afferma che lo scioglimento si perfeziona con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale (o l'omologa di quella consensuale) (per tutte, Cass. n. 8643 del 1992; n. 2944 del 2001). Nel passaggio in giudicato (o nell'omologa) si individua dunque il momento in cui sorge l'interesse ad agire, concreto ed attuale, volto allo scioglimento della comunione e alla divisione, ma esso può anche riguardarsi come il fatto costitutivo del diritto ad ottenere tale scioglimento e la conseguente divisione.
Tali elementi non possono che qualificarsi come condizioni dell'azione, e non già come presupposti processuali, per cui è sufficiente che tali condizioni esistano al momento della pronuncia, e non necessariamente a quello della domanda (per tutte, Cass. n. 21100 del 2004).
In particolare il passaggio in giudicato (o l'omologa), come elemento decisivo della vicenda costitutiva del diritto allo scioglimento della comunione legale, comporta che tale vicenda debba ritenersi compiutamente realizzata, con la conseguenza che l'eventuale carenza o incompletezza originaria diviene irrilevante, perchè sostituita dalla realizzazione compiuta del fatto costitutivo del diritto azionato, e non può precludere la pronuncia di merito.

Le condizioni che legittimano l’azione legale a tutela dell’ambiente

Con la Decisione del 26/02/2010, n. 1134, il Consiglio di Stato ha disposto che il criterio della vicinitas costituisce la base del riconoscimento della legittimazione ad agire dei singoli che agiscano a tutela del bene ambiente e, in particolare, a tutela di interessi incisi da atti che li ledono direttamente e personalmente, unitamente all'intera collettività che insiste sul territorio.
A tale criterio, tuttavia, va attributo il senso non di stretta contiguità, bensì di stabile e significativo collegamento, da indagare caso per caso, del ricorrente con la zona il cui ambiente si intende proteggere.
Nella specie, tale situazione di stabile e significativo collegamento con l'area destinata alla realizzazione dell'impianto è effettivamente individuabile nell'insistenza delle aziende dei ricorrenti nell'ambito potenzialmente soggetto ad effetti diretti ed indiretti sull'uomo, sulla fauna, sulla flora, sul suolo, sulle acque di superficie e sotterranee, sull'aria, sul clima, sul paesaggio e sull'interazione tra detti fattori, sui beni materiali e sul patrimonio culturale ed ambientale, ossia sugli elementi da valutarsi ai fini del giudizio di compatibilità ambientale del progetto.
E non v'è dubbio che la distanza da 600 a 2000 metri non sia di ostacolo alla configurazione della ripetuta situazione di vicinitas, intesa nel significato predetto, avuto riguardo alla natura ed alla potenzialità dell'impianto autorizzato, in particolare all'enorme quantità ed eterogeneità dei rifiuti di cui si consente lo smaltimento o il recupero e di quelli da stoccare.
In altri termini, tanto basta a qualificare e differenziare la posizione giuridica soggettiva dei ricorrenti ed il loro interesse a far valere l'illegittimità dell'autorizzazione all'installazione ed al funzionamento dell'impianto a tutela dell'integrità delle proprie attività, siano esse agricole o zootecniche, anche con connotati industriali, svolte sui fondi di pertinenza.
Ai sensi dell'art. 208, comma 6, D.Lgs. n. 152 del 2006, sulla base delle risultanze dell'apposita conferenza di servizi la Regione approva il progetto ed autorizza la realizzazione e la gestione dell'impianto.
Non diversamente dall'art. 14-ter, comma 9, L. n. 241 del 1990, lo stesso comma 6 stabilisce che l'approvazione sostituisce ad ogni effetto visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di organi regionali, provinciali e comunali, costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori.
E', dunque, solo tale approvazione, e non il presupposto giudizio di compatibilità ambientale, che si configura come provvedimento finale del procedimento autorizzativo, costitutivo dei previsti effetti esterni, perciò esso solo idoneo ad incidere su posizioni giuridiche soggettive.
Conseguentemente, il relativo termine iniziale di impugnativa non può che coincidere con la notifica o l'acquisizione della piena conoscenza di tale provvedimento.
L'art. 19, comma 1, L. n. 1034 del 1971 prevede che, fino all'intervento di un'apposita legge di procedura, le norme di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato si applicano nei giudizi davanti ai tribunali amministrativi.
Non v'è dubbio, perciò, che la norma relativa alla necessità di mandato speciale, da sempre applicata non solo all'atto introduttivo del giudizio ma anche alla costituzione in giudizio dell'amministrazione resistente, operi per tutti i giudizi in questione, ivi compreso, ovviamente, quello che dà luogo a sentenza in forma semplificata.
Ciò anche e proprio per la mancanza di alcuna deroga al riguardo contenuta nella relativa disciplina.
Ai sensi sia dell'art. 2, lett. b), D.P.R. 12 aprile 1996, sia dell'art. 24, lett. b), D.Lgs. n. 152 del 2006, la valutazione di impatto ambientale deve assicurare che per ciascun progetto siano valutati gli effetti diretti ed indiretti della sua realizzazione sull'uomo, sulla fauna, sulla flora, sul suolo, sulle acque di superficie e sotterranee, sull'aria, sul clima, sul paesaggio e sull'interazione tra detti fattori, sui beni materiali e sul patrimonio culturale ed ambientale.
Nella specie, alcuna di siffatte valutazioni risulta eseguita, atteso che nella relazione istruttoria le informazioni inerenti l'area in cui è prevista l'ubicazione delle opere sono limitate all'indicazione della destinazione urbanistica a zona industriale di progetto del lotto di insediamento e del relativo accesso.
Né in alcun altra parte della relazione vi è traccia delle ridette valutazioni e, in particolare, manca ogni considerazione sulla stessa esistenza di insediamenti produttivi circostanti o comunque da ritenere viciniori nei sensi sopra espressi.

martedì 23 marzo 2010

Illegittimo l’accertamento delle infrazioni al codice della strada operato dai privati

La Cassazione si è nuovamente pronunciata sulla legittimità dell’accertamento delle infrazioni al codice della strada, ribadendo ancora una volta un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato e di cui si era già parlato in un recentissimo post.
Con la sentenza del 17/03/2010, n. 10620, infatti, i Supremi Giudici hanno stabilito che: l'accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale ricade tra le attività previste dall'art. 11 lett. A Codice della strada e quindi costituisce servizio di polizia stradale, non delegabile a terzi; le apparecchiature eventualmente utilizzate per tale accertamento debbono essere gestite direttamente da parte degli organi di polizia stradale e devono essere nella loro disponibilità (art. 345.4 Reg, Cds); le spese afferenti l'eventuale noleggio delle apparecchiature rientrano tra le "spese di accertamento" (art. 201.4 C.d.s.), e la loro disciplina non può che essere quella propria connessa alla natura di tali spese; il parametro per la loro quantificazione - del tutto idoneo a consentire la quantificazione anche dell'importo per un eventuale appalto, nel caso di noleggio degli strumenti e di servizi accessori connessi alla peculiare tipologia di strumento, ovviamente diversi dalla fase di accertamento riservata, come visto, in via esclusiva all'organo di polizia stradale - è agevolmente individuabile dal costo giornaliero connesso all'installazione, manutenzione, servizio accessorio; in particolare tale costo è all'evidenza uguale per qualsiasi operazione, giacché l'entità della sanzione propria della singola infrazione eventualmente accertata è parametro del tutto non pertinente, estraneo ed irrilevante, quanto alla spesa sostenuta per ogni singola operazione: la "quantità" dell'importo di appalto è il costo del servizio, a prescindere dal numero e dalla "qualità" delle infrazioni poi eventualmente accertate utilizzando quel servizio; da ciò si evince che esiste un costo di accertamento (nel senso onnicomprensivo prima indicato) quantificabile a prescindere del tutto dal tipo di infrazione accertata e che il parametro dell'entità della sanzione quale modalità di determinazione del corrispettivo - e pertanto come base di un appalto connesso all'utilizzazione delle apparecchiature strumentali - è incompatibile con i principi generali della disciplina contabile pubblica in materia di spese di accertamento (di talché sono messi al bando gli autovelox i cui costi giornalieri, che divengono incasso per la ditta appaltatrice, lievitano con il crescere del numero delle contravvenzioni); tenuto infine conto della finalità preventiva, e non repressiva o di finanziamento pubblico o lucro privato della disciplina sanzionatoria, determinare il costo del noleggio delle apparecchiature in base agli importi delle multe è un parametro «contrario ai principi della Costituzione» (principio del buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione) ex art. 97 Cost..