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mercoledì 27 gennaio 2010

Ti diseredo! O no … ?

Magari in un momento d’ira particolarmente acuta, è possibile che tra genitori e figli o tra coniugi “scappi” una frase simile che potrebbe segnare in negativo il futuro dello sfortunato destinatario. Tuttavia, ha poco da temere e lo si può rassicurare chiarendo che l’istituto della diseredazione non è ammissibile nel nostro ordinamento. Fatti salvi i diritti dei legittimari, riconosciuti direttamente dalla legge, il problema si è posto per gli altri parenti eredi legittimi, nei confronti dei quali chi dispone per testamento potrebbe manifestare la volontà di non attribuire alcunché (ad esempio, “escludo dalla successione mio fratello”).
Ebbene, una delle ragioni della suddetta inammissibilità riposa nella considerazione che l’art. 587, c.c., sancendo che il testatore “dispone di tutte le sue sostanze o parte di esse”, impone che la volontà venga espressa in positivo, mediante l’assegnazione dei beni, e non in negativo, con l’esclusione di taluni soggetti.
Non mancano, però, sentenze della Cassazione, come la n. 5895 del 18 giugno 1994, che statuiscono come la volontà della diseredazione può valere a far riconoscere una contestuale volontà di istituzione di tutti gli altri successibili non diseredati solo quando, dallo stesso tenore letterale della volontà, o dal complesso dell’atto che la contiene, risulti la volontà di attribuire positivamente, con la conseguenza che solo in questo caso è possibile cercare anche all’esterno dello scritto che la contiene, l’effettivo contenuto della volontà di istituzione.

Successione ereditaria: determinazione della quota di legittima in caso di rinunzia di un legittimario

Com’è noto, la legge riserva a favore di determinati soggetti (coniuge, figli e ascendenti), detti legittimari, una quota del patrimonio ereditario, indipendentemente dalla volontà di chi ha disposto con testamento. Un problema particolarmente dibattuto riguarda la determinazione di tali quote, nell’ipotesi che un avente diritto (ad esempio il coniuge) dovesse rinunciare a quanto gli spetta. Infatti, mentre una parte di dottrina e giurisprudenza sostiene che chi rinuncia si deve considerare come se non esistesse ai fini divisori, l’altra parte sostiene che la quota non accettata si accresce proporzionalmente a favore degli altri beneficiari.
Vista l’incertezza che regnava la materia, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con sentenza n. 13524, del 12 giugno 2006, ha disposto che ai fini della individuazione della quota di riserva spettante alle singole categorie di legittimari e ai singoli legittimari nella stessa categoria, occorre fare riferimento alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione, e non a quello che si viene a determinare per effetto del mancato esperimento (per rinunzia o prescrizione) dell’azione di riduzione da parte di qualcuno dei legittimari. Con la conseguenza che la quota dei legittimari non rinunzianti non si accresce per effetto della rinuncia da parte di uno di essi all’esperimento dell’azione di riduzione, né la quota viene ricalcolata come se il legittimario rinunciante non fosse mai venuto alla successione.
Per la Corte, quindi, la quota che sarebbe andata al legittimario rinunciante se avesse agito in riduzione non va in ogni caso a beneficio dei legittimari accettanti, né per accrescimento in senso tecnico, né a seguito del ricalcolo delle quote dei legittimari accettanti. Essa incrementa piuttosto la quota di cui il testatore poteva disporre liberamente, e quindi va a beneficio di donatari, eredi o legatari.

lunedì 25 gennaio 2010

Successione ereditaria: gli elementi che configurano il patto successorio, vietato dalla legge

Nel nostro ordinamento vige un principio in virtù del quale chiunque può disporre del proprio patrimonio per quando avrà cessato di vivere esclusivamente con il testamento e no con accordi – tecnicamente definiti “patti successori” - che rientrano nella categoria dei contratti.
La ragione del citato principio si base sulla considerazione che chi dispone lo deve fare liberamente e senza condizionamenti, con la facoltà di revocare in ogni momento, al contrario di ciò che accadrebbe se si stipulasse un vero e proprio contratto dal quale nascesse un vincolo che richiederebbe la volontà almeno di un altro soggetto.
Per comprendere la portato del citato divieto, si pensi che rientra nel divieto dei patti successori anche una donazione fatta in vita da un padre a uno dei propri figli per ricompensarlo di ciò che non gli verrà assegnato con la successiva eredità.
Proprio al fine di pronunciarsi su una causa che presentava caratteri analoghi, la Corte di Cassazione, con sentenza del 19 novembre 2009, n. 24450, ha statuito che sono patti successori, da un lato, le convenzioni aventi per oggetto una vera istituzione di erede rivestita della forma contrattuale e, dall’altro, quelle che abbiano per oggetto la costituzione, trasmissione o estinzione di diritti relativi ad una successione non ancora aperta e facciano sorgere un vinculum iuris, di cui la disposizione ereditaria rappresenti l’adempimento. Il patto successorio, ponendosi in contrasto con il principio fondamentale (e pertanto di ordine pubblico) del nostro ordinamento della piena libertà del testatore di disporre dei propri beni fino al momento della sua morte, è per definizione, non suscettibile della conversione ex art. 1424 codice civile, in un testamento, mediante la quale si realizzerebbe proprio lo scopo, vietato dall’ordinamento, di vincolare la volontà del testatore al rispetto di impegni, concernenti la propria successione, assunti con terzi.

venerdì 22 gennaio 2010

Contratti: quando si configura l’abuso di diritto

Non è raro nella prassi che, in seguito alla conclusione di un contratto, una delle due parti eserciti i diritti acquistati per finalità diverse rispetto a quelle per le quali si potrebbero legittimamente esercitare (a titolo esplicativo in fondo all’articolo si riporta una breve casistica, ma si immagini modifiche unilaterali e/o recesso del contratto immotivati o lesivi; maggiore onerosità della prestazione; prestazione eseguita in modo da favorire chi la espleta; esercizio di un diritto al solo fine di produrre un danno all’altra parte.).
Con sentenza n. 20106, del 18 settembre 2009, la Cassazione si è soffermata su questo fenomeno, che prende il nome di “abuso di diritto”, e facendo il punto ha chiarito che costituiscono principi generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui le parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375).
In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476).
Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.).
In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi.
La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione.
Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto, che lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore.
Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.
Come conseguenze di tale eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale che rifiuta la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva, volta a impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sé strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata (Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838).
Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione: oggi, i principi della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti.

CASISTICA
Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale).
In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici.
E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (v. Cass. 11.6.2003 n. 9353).
Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387).
Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258).
In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo “disvelamento” (piercing the corporate veil).
Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benché pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642).
E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947).
In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c. (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; Cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273).
Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057).

mercoledì 20 gennaio 2010

Le condizioni per considerare infortuni sul lavoro quello che si verifica nel tragitto casa-lavoro

E’ lecito domandarsi quale sia la portata del comma aggiunto dal D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 12, al D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 2, che, alle condizioni specificamente previste, assimila gli spostamenti necessari per recarsi sul luogo di lavoro all'esecuzione della prestazione, al fine di poter domandare il legittimo risarcimento dei danni in caso d’infortunio.
A tale delicata domanda dà una risposta la Corte di Cassazione, che, con sentenza 11 giugno 2009, n. 13599, chiarisce che il D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 2, detta la norma fondamentale della materia, secondo la quale l'assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in "occasione di lavoro". Sulla nozione di "occasione di lavoro", la giurisprudenza di legittimità precisa che tale condizione si realizza ogniqualvolta lo svolgimento di un'attività lavorativa, pur non essendo la causa, costituisce l'occasione dell'infortunio e cioè quando determini l'esposizione del soggetto protetto al rischio di esso, dando luogo ad un nesso eziologico (rapporto causa-effetto), seppur mediato e indiretto.
Nondimeno, sul tema del nesso eziologico, l'evoluzione giurisprudenziale, anche sull'impulso degli interventi della Corte costituzionale (vedi, in particolare, C. Cost. n. 55 del 1981) è pervenuta a ribaltare il convincimento che il fatto delittuoso dei compagni di lavoro o dei terzi interrompesse qualsiasi nesso causale con l'esecuzione della prestazione. Si ritiene, ormai pacificamente, che le aggressioni subite dal lavoratore a scopo di rapina, sia nello stesso luogo di lavoro, sia in altri luoghi, ma tuttavia in qualche modo collegate all'esecuzione della prestazione, siano coperte dalla garanzia assicurativa (Cass. 21 luglio 1988, n. 4716; 23 febbraio 1989, n. 1014; 18 gennaio 1991, n. 430; 11 aprile 1998, n, 3747; 13 dicembre 2000, n. 1569); alla medesima conclusione si è giunti anche in caso di omicidio volontario, originato tuttavia da comportamenti tenuti dal lavoratore nell'esercizio delle sue mansioni (Cass. 28 gennaio 1999, n. 774); una ulteriore estensione si è registrata con riferimento all'ipotesi di particolare rischio ambientale, in fattispecie di paese estero con diffusa ostilità verso l'attività svolta dall'impresa e i soggetti di diversa nazionalità (Cass. 2 ottobre 1998, n. 9801).
E tuttavia è rimasto fermo il principio secondo il quale non è possibile ignorare il preciso elemento normativo dell'occasione di lavoro, cosicchè, per la configurazione dell'infortunio sul lavoro ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965, non è sufficiente che sussista la causa violenta e che tale causa abbia coinvolto l'assicurato nel luogo ove egli svolge le sue mansioni, ma è necessario che tale causa sia connessa all'attività lavorativa, nel senso cioè che inerisca a tale attività e sia almeno, occasionata dal suo esercizio. Il principio è valso ad escludere l'occasione di lavoro, in particolare, per gli omicidi in alcun modo connessi con il lavoro, sul rilievo che la "mera presenza" dell'infortunato sul posto di lavoro e la coincidenza temporale dell'infortunio con la prestazione lavorativa, costituiscono soltanto un "indizio" della sussistenza del rapporto "occasionale" e non la prova di esso, posto che non può escludersi - specie quando trattasi di omicidio volontario -che l'evento dannoso sarebbe stato comunque consumato dall'aggressore, ricercando l'occasione propizia anche in tempo e luogo diversi da quelli della prestazione di lavoro (Cass. 23 febbraio 1989, n. 1017; 19 gennaio 1998, n. 447; 29 ottobre 1998, n. 108159).
Il descritto complesso di regole e principi non risulta in alcun modo derogato per effetto dell'introduzione dell'ipotesi legislativa dell'infortunio in itinere.
Il comma aggiunto dal D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 12, al D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 2, alle condizioni specificamente previste assimila gli spostamenti necessari per recarsi sul luogo di lavoro all'esecuzione della prestazione, ma chiaramente non incide sul requisito dell'occasione di lavoro, da riferire, in tal caso al nesso con la necessità degli spostamenti e dei percorsi. In questa prospettiva, la giurisprudenza di legittimità (Cass. 14 febbraio 2008, n. 3776) si è spinta fino al punto di ravvisare l'occasione di lavoro nella rapina subita dal lavoratore in itinere e allo scopo di sottrargli il mezzo privato adoperato (motoveicolo).
Ma il collegamento con il lavoro è stato individuato nel possesso di un bene patrimoniale, quale strumento necessario attraverso il quale si realizzava l'iter protetto. Del resto, più in generale, va considerato che l'itinerario seguito e i mezzi di locomozione adoperati presentano sempre un nesso di occasionalità necessaria con episodi delittuosi diretti a colpire vittime casuali.

Illegittimo il frazionamento di un debito con l’emissione di molteplici decreti ingiuntivi

Statuendo su di una controversia nata successivamente alla contestazione dell’emissione di molteplici decreti ingiuntivi conseguenti a un arbitrario frazionamento di un unico debito, la Cassazione ha fissato un principio di diritto che costituirà un monito per le parti di qualunque rapporto obbligatorio.
Con sentenza n. 24539 del 20 novembre 2009, infatti, la i Supremi Giudici, alla luce di recenti sentenze della medesima Corte (Cass. 11 giugno 2008, n. 15746; Cass., Sez. Un., 15 novembre 2007, n. 23726), hanno disposto che deve ulteriormente ribadirsi che non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto dell'obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione peggiorativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l'esecuzione del contratto ma anche nell'eventuale fase dell'azione giudiziale per ottenere l'adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale.

martedì 19 gennaio 2010

Danni da vaccino: ecco quando scatta l'indennizzo

Con decreto ministeriale del 21 ottobre 2009, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.9 del 13 gennaio 2010, è stata integrata la normativa relativa ai benefici cui hanno diritto le persone danneggiate dalle vaccinazioni, individuando i criteri necessari alla formazione delle graduatorie necessarie all'applicazione dei benefici stessi. La legge n.210/92 stabilisce che chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie (per legge o per ordinanza) di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato. Ulteriori benefici sono stati introdotti dalla L. n.229/05 (cioè un ulteriore indennizzo pari rispettivamente a sei, cinque o quattro volte la somma attribuita dalla Legge n. 210, a seconda della categoria ascritta). Queste, in sintesi, alcune disposizioni del decreto: il Ministero provvede alla corresponsione dell'indennizzo aggiuntivo e dell'assegno una tantum previsti dalla legge n. 229/2005, nonché alla formazione di una graduatoria, sulla base del criterio cronologico di presentazione delle istanze degli aventi titolo, accompagnato dai parametri correttivi della gravità dell'affezione o della difficoltà economica degli aventi titolo e dei loro nuclei familiari. Il parametro della gravità dei danni subiti è stabilito in base alla L. 210/92; quello della difficoltà economica degli aventi titolo o dei loro nuclei familiari è determinato dall'indicatore economico ISEE; indennizzo aggiuntivo e rate dell'assegno una tantum sono stabiliti secondo apposite graduatorie.

lunedì 18 gennaio 2010

Studi di settore: la Cassazione si sofferma sulla loro efficacia probatoria

Com’è noto, gli studi di settore costituiscono un sistema volto ad agevolare l’attività accertatrice nel perseguire l’evasione fiscale, mediante la predisposizione di strumenti di ricostruzione per l’elaborazione statistica della normale redditività di determinate attività catalogate per settori omogenei.
Uno dei problemi che anima il contrasto tra l’ente accertatore e i contribuenti, è l’efficacia probatoria degli studi di settore, ovvero, la possibilità o meno per il contribuente di “giustificare” lo scostamento tra il reddito inferiore dichiarato (che costituisce l’effettiva basi imponibile) e quello presuntivamente ricavato mediante l’impiego di tale strumento.
Con sentenza n 26341, del 16 dicembre 2009, la Corte di Cassazione ha stabilito che gli studi di settore, pur costituendo uno strumento raffinato di parametri, soprattutto perché la loro elaborazione prevede una diretta collaborazione con le categorie interessate, restano tuttavia una elaborazione statistica, che, per quanto seriamente approssimata, può solo costituire una presunzione semplice, come stabilito dall’art. 1, comma 14 bis, L.296/2006, a proposito degli indicatori di normalità economica che gli uffici devono utilizzare in attesa della revisione degli studi di settore.
In buona sostanza, gli studi di settore rappresentano la predisposizione di indici rilevatori di una possibile anomalia del comportamento fiscale, evidenziata dallo scostamento delle dichiarazioni dei contribuenti relative all’ammontare dei ricavi o dei compensi rispetto a quello che l’elaborazione statistica stabilisce essere il livello “normale” in relazione alla specifica attività svolta dal dichiarante. Lo scostamento deve testimoniare una grave incongruenza, tanto da legittimare l’avvio di una procedura finalizzata all’accertamento nel cui quadro i segnali emergenti dallo studio di settore devono essere corretti in contraddittorio con il contribuente.
Si può affermare, pertanto, il principio di diritto secondo il quale la procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è determinata dalla legge in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente (che può, tuttavia, restare inerte assumendo le conseguenze, sul piano della valutazione di questo suo atteggiamento), Esito che, essendo alla fine di un percorso di adeguamento della elaborazione statistica degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, deve far parte (e condiziona la congruità) della motivazione dell’accertamento, nella quale vanno esposte le ragioni per le quali i rilievi del destinatario dell’attività accertativa siano state disattese. Il contribuente ha, nel giudizio relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici, e il giudice può valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, che deve essere dimostrata dall’ente impositore, quanto la controprova sul punto offerta dal contribuente.

Autorizzazione o concessione edilizia? Il Consiglio di Giustizia della Regione Sicilia fa luce sulla problematica

Chi si appresta a eseguire lavori di manutenzione straordinaria sul proprio immobile, spesso, non sa se sia necessaria una semplice autorizzazione comunale o una concessione edilizia.
Al fine di dirimere una controversia che ha coinvolto un soggetto proprietario di un immobile crollato durante i lavori in esame, il C.G.A. siciliano a cercato di risolvere la problematica con un’interessante sentenza.
Con la decisione del 25 maggio 2009, n. 481, infatti, i giudici siciliani hanno messo in evidenza che
la Regione siciliana, ai sensi dell’art. 14, lett. f), dello Statuto regionale, ha, nella materia dell'urbanistica, competenza legislativa primaria o esclusiva.
Nondimeno, molte disposizioni dell’ordinamento statale sono state recepite nell’ordinamento regionale, e ciò anche – per quanto qui rileva – nelle materie dell’urbanistica e dell’edilizia, alcune delle quali sono state ulteriormente integrate con leggi regionali, come ad esempio, l’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo Unico dell’edilizia), al quale è stato aggiunto un ulteriore periodo, del seguente tenore: "Nell’àmbito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica".
Per effetto degli interventi regionali, pertanto, sin dal 1 luglio 2003, la lett. d) del Testo Unico dell’edilizia, dispone che per «interventi di ristrutturazione edilizia», devono intendersi “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'àmbito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica".
Considerando l’attuale panorama normativo, dunque, il nuovo discrimen tra gli interventi soggetti e quelli non soggetti a permesso di costruire (ossia al titolo abilitativo edilizio che in Sicilia è ancora denominato concessione edilizia) non passa più tra la lettera c) e la lettera d) dei cit. artt. 31 L. n. 457/1978, 20 L.R. n. 71/1978 e 3 D.P.R. n. 380/2001 (nel senso che solo gli "interventi di restauro e di risanamento conservativo" non abbisognano di permesso di costruire, o titolo equivalente, il quale sarebbe invece necessario per tutti gli "interventi di ristrutturazione edilizia").
Tale discrimen è, invece, interno alla lettera d) di tutte le citate disposizioni legislative (nazionali e regionali): dovendosi discernere, tra gli "interventi di ristrutturazione edilizia" ivi enumerati, quelli che – ai sensi dell’art. 10 T.U. – "portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso", richiedenti il permesso di costruire; da quelli che consistano, invece, nella realizzazione di un organismo edilizio identico al precedente, senza aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, né, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, mutamenti della destinazione d'uso, che viceversa tale permesso non richiedono, restando perciò soggetti alla disciplina abilitativa semplificata di cui all’art. 22 del cit. T.U. (Cfr., parzialmente de eadem re, C.d.S., 11 aprile 2007, n. 1669).

La disciplina dei permessi straordinari retribuiti del lavoratore subordinato portatore di handicap grave

A norma dell'art. 33, comma sesto, legge n. 104 del 1992, il lavoratore subordinato maggiorenne portatore di handicap grave riconosciuto con apposito verbale della ASL ai sensi dell'art. 4, comma primo, della legge stessa legge (dunque non il solo invalido civile), ha diritto a tre giorni di permesso mensili o, in alternativa, a due ore al giorno retribuite presentando apposita domanda amministrativa all'INPS, da redigere su modello Hand3/titolari, la cui validità massima è di 12 mesi dalla data di presentazione, e la cui copia, congiuntamente alla documentazione rilasciata dalla ASL da cui risulta l'accertamento dello stato di handicap, deve essere presentata al datore di lavoro.
Il rinnovo della domanda si può effettuare mediante una autocertificazione del lavoratore che dichiari che non sono intervenute rettifiche o revoche.
Per le due ore di permesso giornaliere, l'indennità è pari all'intero ammontare della retribuzione relativa alla durata del permesso stesso; per i tre giorni di permesso mensili è uguale alla retribuzione intera ragguagliata alla paga globale giornaliera.

giovedì 14 gennaio 2010

Sottotetto: le condizioni per considerarlo condominiale

E’ possibile che un bene ricadente all’interno di un complesso condominiale non sia espressamente incluso nell’elenco delle parti comuni dell’edificio contenuto nel regolamento condominiale. In tali ipotesi si deve fare ricorso agli atti di compravendita, i più recenti dei quali spesso si limitano a richiamare quanto già previsto dal precedente contratto, costringendo così ad una indagine a ritroso che può comportare persino l’analisi del primo atto di cessione.
Qualora questa ricerca si rivelasse infruttuosa, è bene che l’interessato sappia che a norma dell’art. 1117, c.c., esiste un elenco non tassativo di parti dell’edificio che si presumono di proprietà comune, salvo prova contraria che grava sul soggetto titolare dell’interesse volto a provare la proprietà esclusiva del bene, il quale risulterà comune se ha l'attitudine oggettiva al godimento comune e sia concretamente destinato al servizio comune.
In riferimento al sottotetto, con sentenza n. 17928 del 2007, la Cassazione ha stabilito che per vincere la suindicata presunzione, è irrilevante che il bene sia considerato comune dal regolamento di condominio e/o incluso nelle tabelle millesimali, in quanto il proprietario del piano sottostante potrà considerarsi proprietario esclusivo solo quando il sottotetto assolve la funzione di isolare e proteggere il suo appartamento dal caldo, dal freddo e dall'umidità, creando così una camera d'aria protettiva tra il tetto e l'appartamento.

Malfunzionamento dell’airbag: la casa automobilistica deve risarcire i danni

Prendendo spunto da una controversia nella quale gli eredi di un soggetto defunto in seguito a un incidente stradale a causa del malfunzionamento dell’airbag chiedevano il risarcimento dei danni subiti, la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 14 del 5 gennaio 2010, ha stabilito la legittimità della richiesta sul presupposto che la casa automobilistica deve intendersi obbligata a risarcire il danno agli eredi dell’automobilista in quanto responsabile di aver immesso sul mercato un prodotto difettoso.
La disciplina dei prodotti difettosi si rinviene nel cosiddetto “Codice del Consumo” introdotto nel tessuto normativo italiano con il D.LGS 6 settembre 2005, n. 206, che regolamenta i rapporti tra professionisti e consumatori, il quale, ai sensi dell’art. 114, dispone che “Il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto”.
Come ha ribadito la Cassazione con la sentenza in esame, il collegamento causale tra le lesioni subite e l'omesso funzionamento dell'airbag deve essere provato dal danneggiato, così come disposto dall’art 120, codice del consumo, a carico del quale si pone, altresì, l’onere probatorio relativo all’esistenza del difetto (da dimostrare mediante opportuna perizia) e del conseguente danno.

Pirateria informatica: il giudice può impedire l’accesso a internet

Il conflitto tra la pirateria informatica che vìola il diritto d’autore sostenendo il cosiddetto “open source” e i difensori della proprietà intellettuale non è certo prossimo a un armistizio, ma continua nelle aule dei tribunali segnando, anche questa volta, un’altra vittoria a favore dei secondi.
Con sentenza penale del 23/12/2009, n. 49437, infatti, i giudici della Suprema Corte hanno stabilito che
l’autorità giudiziaria penale ha un potere inibitorio in virtù del quale può ordinare ai provider dei servizi di precludere l'accesso ad internet anche al solo fine di impedire la prosecuzione della perpretazione del reato di dffusione illecita a fini di lucro di opere protette dal diritto d'autore.
Al tradizionale potere di sequestro preventivo del sito web il cui gestore concorra nell'attività penalmente illecita di diffusione nella rete internet di opere coperte da diritto d'autore, senza averne diritto, pertanto, il giudice può affiancare la contestuale richiesta che i provider del servizio di connessione internet escludano l'accesso al sito al limitato fine di precludere l'attività di illecita diffusione di tali opere.
Il fatto che i server siano collocati all'estero, inoltre, non è di impedimento all'adottabilità del provvedimento di sequestro preventivo una volta che si ritenga la giurisdizione del giudice penale nazionale.

martedì 12 gennaio 2010

Infortunio sul lavoro: la Cassazione ribadisce le condizioni

Prendendo spunto da una causa con la quale gli eredi di un soggetto defunto durante lo svolgimento dell’attività lavorativa chiedevano che venisse riconosciuto che l’evento luttuoso fosse conseguenza del lavoro, la Cassazione ha ulteriormente chiarito in presenza di quali condizioni la morte può essere ricollegata all’attività svolta, sì da qualificarsi “infortunio sul lavoro” e beneficiare della tutela previdenziale antinfortunistica dell'INAIL.
Con sentenza n. 26231 del 15/12/2009, infatti, la Corte ha statuito che, sebbene sia possibile che l’infarto in un soggetto già sofferente di cuore ed iperteso, possa costituire infortunio sul lavoro, occorre in ogni caso la prova che tale evento, normalmente ascrivibile a causa naturale, sia stato causato o concausato da uno sforzo, ovvero dalla necessità di vincere una resistenza inconsueta o un accadimento verificatosi nell'ambito del lavoro, il quale abbia richiesto un impegno eccedente la normale tollerabilità ed adattabilità.
Per causa violenta deve intendersi un evento che con forza concentrata e straordinaria agisca, in occasione di lavoro, dall'esterno verso l'interno dell'organismo del lavoratore, dando luogo ad alterazioni lesive.
Con riguardo a un infarto cardiaco, che di per sè non integra la causa violenta, va accertato se la rottura dell'equilibrio nell'organismo del lavoratore sia da collegare causalmente a specifiche condizioni ambientali e di lavoro improvvisamente eccedenti la normale adattabilità e tollerabilità, sì da poter essere considerate, sia pure in termini di mera probabilità, fattori concorrenti e da far escludere che si sia trattato del semplice effetto logorante esercitato sull'organismo da gravose condizioni di lavoro.

giovedì 7 gennaio 2010

Successione: i beni si stimano all’apertura della successione secondo il valore effettivo

L’apertura di una successione, che coincide con il decesso, è spesso motivo di contrasto tra gli eredi che si contendono il patrimonio, il quale può anche essere oggetto delle valutazioni più diverse.
Tra le varie ipotesi che possono incidere sui valori dei beni che compongono un determinato patrimonio, vi è quella che determina un notevole incremento di valore di un fondo che in virtù di una variante del piano regolatore dovesse trasformarsi da agricolo a industriale o edificabile.
Con sentenza n. 24711 del 24 novembre 2009, la Cassazione ha ribadito che a norma degli artt. 556, 747 e 750 del codice civile, i beni di un patrimonio si stimano al momento dell’apertura della successione secondo il valore effettivo in concreto e non a un valore tecnico non più corrispondente ai valori di mercato.
Nell’ipotesi suindicata, la Corte rileva che l’inizio del procedimento di trasformazione urbanistica è già sufficiente a incidere sul valore di mercato di un immobile, e ciò si verifica già dal momento in cui il Comune adotta la qualificazione di area edificabile nel suo piano regolatore, ancora prima che lo stesso sia approvato dalla Regione, essendo irrilevanti le vicende successive come la mancata approvazione o la modifica del medesimo strumento urbanistico.

Carta di circolazione o certificato di idoneità tecnica: è necessario il possesso dell’originale

A norma dell’art. 180, codice della strada, il conducente, per poter circolare, deve avere con sé, tra l’altro, anche la carta di circolazione o il certificato di idoneità tecnica. In seguito a una sanzione amministrativa, rilevata successivamente alla violazione di una norma del codice della strada, un automobilista otteneva l’annullamento del verbale, determinando il ricorso per Cassazione del Comune, il quale rilevava illegittimo che il Giudice di Pace ritenesse che l’automobilista potesse limitarsi ad esibire una copia e non l’originale del certificato d’idoneità tecnica.
Con sentenza n. 23085, del 30 ottobre 2009, la Cassazione ha stabilito che l’ordine di esibizione di un documento originale, anziché in fotocopia, nella specie per verificare le situazioni tecniche e giuridiche del veicolo successive all’immatricolazione e la possibilità di avere trasportati a bordo, non ammette deroghe e non può essere eluso con la contrapposizione della tesi della sua non obbligatorietà, in contrasto con la espressa previsione normativa e con la stessa esibizione della copia, da cui deriva la necessità della verifica della conformità all’originale.

Il diritto di superficie e la servitù altius non tollendi sono compatibili

Nella pratica commerciale non è raro che il proprietario di un terreno venda a un costruttore la cosiddetta “colonna d’aria” che consente di edificare nei limiti dalle stesse parti pattuite. Tale definizione, però, deve essere ricondotta nell’ambito di una fattispecie astratta disciplinata dal codice civile, ed è per questo che i giudici qualificano la suddetta “colonna d’aria” talvota servitù altius non tollendi (che consente di costruire sino a una certa altezza), talaltra diritto di superficie (che consente a un soggetto di costruire, acquistandone la proprietà , su di un fondo altrui). Questi ultimi diritti si ritenevano incompatibili poiché espressione di interessi contrapposti che non potevano concentrarsi sullo stesso bene e in capo al medesimo soggetto. Con sentenza del 24 novembre 2009, n. 24701, la Corte di Cassazione ha cambiato orientamento, chiarendo che la vendita della “colonna d’aria” non può considerarsi una cessione di proprietà, e che la stessa può ricondursi nel diritto di superficie o nella servitù altius non tollendi, come sopra accennato, specificando che tali diritti sono compatibili in quanto tendono a disciplinare anche situazioni future. Infatti, mentre il diritto di superficie consente di costruire immediatamente un edificio, e si estingue per non uso dopo vent’anni, la servitù in esame si proietta potenzialmente anche dopo il ventennio, iniziando il suo termine di prescrizione dal momento in cui si viola la prescrizione imposta dalla medesima servitù di non costruire oltre una certa altezza.

lunedì 4 gennaio 2010

Dichiarazioni dei condomini in assemblea e loro efficacia probatoria

In sede assembleare è possibile che i condomini adottino una delibera con la quale prendono posizione su una determinata questione, come, ad esempio, la causa di una infiltrazione all’interno di un locale di proprietà esclusiva o condominiale. Ebbene, è legittimo chiedersi se tale dichiarazione abbia il valore di una confessione da far valere in un ipotetico giudizio, e se sia vincolante anche per i condomini assenti.
In particolare, suddetta problematica si è posta in una causa nella quale dei condomini a maggioranza avevano individuato il rapporto causa-effetto tra le infiltrazioni in un garage e la falda freatica sottostante, così ponendo la necessità di chiarire se i condomini partecipanti alla suddetta assemblea avevano il potere di attribuire anche ai non partecipanti all'assemblea ed ai dissenzienti la valutazione di certezza di quel dato di fatto (il nesso di causalità) da essi ritenuto tale.
Con sentenza sentenza del 09.11.2009, n° 23687, la Cassazione ha ritenuto che l'attestazione della sussistenza del nesso eziologico di cui al verbale assembleare, rientrante nell'ambito delle dichiarazioni di scienza (cioè di conoscenza) non possa avere l'efficacia di una confessione stragiudiziale attribuibile a tutti i condomini (presenti all'assemblea, assenti e dissenzienti) in quanto comportando essa l'obbligo di tutti i condomini di risarcire pro quota i danni provocati al garage e, quindi, l'imposizione di un peso a carico di tutti, è necessario che essa sia condivisa da tutti i condomini, non rientrando nei poteri dell'assemblea quello di imporre oneri al di là delle specifiche previsioni di legge.

Assemblea del condominio: i requisiti per rendere il verbale inattaccabile

Il verbale dell'assemblea condominiale rappresenta la descrizione di quanto è avvenuto in una determinata riunione e da esso devono risultare tutte le condizioni di validità della deliberazione, senza incertezze o dubbi, non essendo consentito fare ricorso a presunzioni per colmarne le lacune.
Con sentenza n. 24132 del 13/11/2009, la Cassazione ha stabilito che il verbale deve contenere l'elenco nominativo dei partecipanti intervenuti di persona o per delega, indicando i nomi dei condomini assenzienti e di quelli dissenzienti, con i rispettivi valori millesimali, perché tale individuazione è indispensabile per la verifica della esistenza dei quorum prescritti dall'art. 1136 cod. civ.
In questo senso è orientata la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha affermato: (a) che non è conforme alla disciplina indicata omettere di riprodurre nel verbale l'indicazione nominativa dei singoli condomini favorevoli e contrari e le loro quote di partecipazione al condominio, limitandosi a prendere atto del risultato della votazione, in concreto espresso con la locuzione “l'assemblea, a maggioranza, ha deliberato” (Sez. II, 19 ottobre 1998, n. 10329; Sez. II, 29 gennaio 1999, n. 810); (b) che la mancata verbalizzazione del numero dei condomini votanti a favore o contro la delibera approvata, oltre che dei millesimi da ciascuno di essi rappresentati, invalida la delibera stessa, impedendo il controllo sulla sussistenza di una delle maggioranze richieste dall'art. 1136 cod. civ., né potendo essere attribuita efficacia sanante alla mancata contestazione, in sede di assemblea, della inesistenza di tale quorum da parte del condomino dissenziente, a carico del quale non è stabilito, al riguardo, alcun onere a pena di decadenza (Sez. II, 22 gennaio 2000, n. 697); (c) che è annullabile la delibera il cui verbale contenga omissioni relative alla individuazione dei singoli condomini assenzienti o dissenzienti o al valore delle rispettive quote (Sez. Un., 7 marzo 2005, n. 4806).

Cortile condominiale: uso e limiti

Prendendo spunto da una controversia nella quale si contestava l’estensione d’uso di un passaggio pedonale condominiale anche ai veicoli a trazione meccanica, la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21256/2009, si è pronunciata sui limiti dell’uso del cortile condominiale, fissando le condizioni per ammetterla, ribadendo interessanti principi.
Il primo comma dell’articolo 1102 del Codice civile, come ripetutamente confermato da giurisprudenza e dottrina, pone due limiti all’utilizzazione da parte del singolo condomino della cosa comune: l'uno, di carattere quantitativo, che impone di consentire agli altri condomini "il pari uso" del bene; l'altro, di natura qualitativa, che prescrive la non alterazione della normale destinazione della cosa.
La nozione di “pari uso” non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione.
L'uso paritetico della cosa comune, che va tutelato, deve essere compatibile con la ragionevole previsione dell'utilizzazione che in concreto faranno gli altri condomini della stessa cosa, e non anche della identica e contemporanea utilizzazione che in via meramente ipotetica e astratta essi ne potrebbero fare (Cass. civ. Sez. II, 27-02-2007, n. 4617).
In riferimento alla non alterazione, quanto al transito con mezzi meccanici, è stato affermato che tra gli usi propri cui è destinato un cortile comune si deve annoverare la possibilità, per i partecipanti alla comunione, di accedere ai rispettivi immobili anche con mezzi meccanici al fine di esercitarvi le attività - anche diverse rispetto a quelle compiute in passato - che non siano vietate dal regolamento condominiale, poiché tale uso non può ritenersi condizionato nè dalla natura dell'attività legittimamente svolta né dall'eventuale, più limitata forma di godimento del cortile comune praticata nel passato (Cass. civ. Sez. II, 16-03-2006, n. 5848).