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mercoledì 31 marzo 2010

Furto nel parcheggio dell’Hotel: va risarcito anche se l'auto non è di proprietà

Con sentenza del 12/03/2010, n. 6048, la Cassazione ha disposto che l'accoglimento della domanda risarcitoria del depositante (ossia di chi deposita, come il cliente di un Hotel) non e' legata alla sussistenza di "una corrispondente diminuzione patrimoniale", non patita dal ricorrente per non essere proprietario del bene. Il titolare dell'obbligazione risarcitoria e' il depositante, trovando la prestazione sostitutiva il suo fondamento proprio nel suo mancato, diligente adempimento dell'obbligazione contrattuale.
Ciò detto, resta tuttavia impossibile attribuire al ricorrente il controvalore dell'autovettura, posto che non sussiste in suo favore la corrispondente diminuzione patrimoniale; va detto, inoltre, che dall'autorizzazione ad usare il veicolo rilasciato dalla società concedente in leasing e conduttrice del veicolo non risulta che l'appellante abbia affrontato un qualche esborso per assicurarsi il godimento dell'auto.
E' principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di legittimità quello per cui soggetto attivo dell'obbligazione di restituzione insita nel contratto di deposito e' il depositante, senza che il depositario (nel caso in esame l’Hotel) possa esigere la prova della proprietà della cosa depositata.
Ad eguale conclusione deve pervenirsi anche con riferimento all'obbligazione sostitutiva, avente ad oggetto l'equivalente pecuniario della cosa depositata, che incombe al depositario nel caso di perdita a lui imputabile e che, derivando egualmente dal contratto, egli non può esimersi dall'adempiere, eccependo che la cosa non era di proprietà dell'altro contraente.
Quindi, nel contratto di deposito, la dimostrazione della proprietà del bene, da parte del depositante, non ha alcun rilievo sotto il profilo della legittimazione a richiederne la restituzione; od, in caso di sua impossibilità, ad esigere la prestazione sostitutiva.
Il depositante e' quindi, il titolare dell'obbligazione sostitutiva, mentre il proprietario rimane estraneo al rapporto contrattuale di deposito.
D'altra parte, a volere ragionare a contrario, l'obbligazione sostitutiva nascente dalla mancata restituzione del bene per fatto imputabile al depositario, - nei casi in cui il depositante non sia anche il proprietario - sarebbe priva di titolare, con la conseguenza che il depositario, in base al contratto di deposito, non risponderebbe ad alcuno.
L'obbligo di custodia esplica, quindi, i suoi effetti unicamente nei confronti del depositante, cui deve essere fatta la restituzione della res depositata; ed allo stesso spetta, in difetto di restituzione, il risarcimento dei danni.

martedì 30 marzo 2010

Made in Italy ma prodotto in Cina? E’ pubblicità ingannevole!

Com’è noto, buona parte dei beni di consumo è prodotta all’estero a scapito del cosiddetto “made in Italy”. Alcuni imprenditori, pertanto, al fine di renderli maggiormente “appetibili”, dichiarano con apposite etichette che gli stessi sono realizzati in Italia.
Secondo il Consiglio di Stato, Sez. VI, 22 marzo 2010, n. 1629, è ingannevole il messaggio pubblicitario che attesti (falsamente) la provenienza di un prodotto commerciale, in realtà fabbricato interamente all’interno di stabilimenti situati in Cina, da un’azienda certificata ISO 9001. Infatti, al fine di escludere la ricorrenza della fattispecie prevista dall’art. 1 del D.Lgs. n. 74 del 1992, è indispensabile che il messaggio pubblicitario, che ha come scopo quello di evidenziare il "valore aggiunto" che dovrebbe rendere più appetibile il prodotto reclamizzato rispetto ai concorrenti, corrisponda alle reali caratteristiche del prodotto stesso, indipendentemente dalle competenze del pubblico al quale esso si rivolge.

Pubblicità ingannevole e promozione telefonica

Nella pratica commerciale è consueto pubblicizzare determinati prodotti invitando telefonicamente i potenziali clienti in Fiere od Hotel promettendo loro degli omaggi. Questa forma di marketing è stata oggetto di una recente sentenza del Tar di Roma che ha escluso che rientri nella cosiddetta “pubblicità ingannevole”.
Infatti, con sentenza del 19/03/2010, n. 4323, il Giudice Amministrativo ha statuito che - pur volendo dare credito alle sole dichiarazioni della consumatrice segnalante, circa il fatto che alla stessa sarebbe stato comunicato di potere ottenere le scarpe “semplicemente recandosi alla fiera di Forlì in data 26 maggio 2007, senza nessun altro impegno” - nessun consumatore medio, ragionevolmente attenuto ed avveduto (secondo il modello che si ritrae dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di pubblicità ingannevole, successivamente recepito ed esteso dalla direttiva sulle pratiche commerciali sleali a tutta la gamma delle condotte dalla stessa considerate), possa ritenere che il ritiro di un omaggio, dichiaratamente di natura promozionale, nel corso di una esposizione commerciale, non comporti, quantomeno, l’onere, al fine di assicurarsi il suddetto beneficio, di assistere alla presentazione di un qualche prodotto tra quelli commercializzati dalla società.
In altre parole, il consumatore medio si deve ritenere in grado di comprendere che l’omaggio promesso è subordinato alla presentazione dell’evento pubblicitario organizzato e non può pretenderlo che alla fine dello stesso, senza che ciò integri un’ipotesi di pubblicità ingannevole.

giovedì 25 marzo 2010

La Cassazione si pronuncia sulla condotta che integra violazione degli obblighi familiari

Con sentenza del 5 marzo 2010, n. 8998, i Supremi Giudici della Cassazione sono intervenuti in materia di violazione degli obblighi familiari da parte dell’ex coniuge e genitore non affidatario, stabilendo che ai fini dell'integrazione del reato di cui all'art. 570, comma 2, n. 2, c.p., è sufficiente che il soggetto obbligato a garantire i mezzi di sussistenza al minore li abbia negati determinando, in astratto, la nascita della situazione di pericolo, senza che assuma alcuna rilevanza la circostanza che altri soggetti intervengano, provvedendo in via sussidiaria ed impedendo, così, che il pericolo si trasformi in vero e proprio danno.
La nozione penalistica di "mezzi di sussistenza" di cui all'art. 570, comma 2, n. 2 c.p. (dettata quindi in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare), ha portata diversa dal "mantenimento" civilistico e comprende, accanto al vitto, l'alloggio ed il vestiario - mezzi, questi per la sopravvivenza vitale - anche altri beni che, in considerazione delle reali capacità economiche e delle concrete capacità del minore, risultano importanti ai fini di un corretto sviluppo psico - fisico, beni che, comunque, rispondono ad esigenze qualificabili come secondarie. Tale ultima peculiarità comporta che il soddisfacimento di queste esigenze è comunque subordinato al soddisfacimento di quelle, primarie, legate alla sopravvivenza vitale e, quindi, esula dalla disponibilità del soggetto chiamato a provvedere, la scelta di rovesciare l'ordine fisiologico così determinato provvedendo solo ed esclusivamente a soddisfare bisogni secondari, anche se attuata attraverso elargizioni economiche anche superiori all'entità stessa dell'assegno che gli compete corrispondere. In conclusione, ai fini dell'esclusione del reato di cui all'art. 570, comma 2, n. 2, c.p., è necessario che l'obbligazione venga adempiuta attraverso la dazione di quel bene o di quel valore che il giudice della separazione o del divorzio ha ritenuto di determinare in considerazione del supremo interesse del soggetto debole, oggetto di tutela privilegiata. Non è, quindi, in termini più specifici, facoltà dell'obbligato sostituire la corresponsione della somma dovuta a titolo di mantenimento con la dazione di beni, anche costosi, che a suo unico giudizio concorrerebbero in maniera soddisfacente alla soddisfazione dei bisogni del minore. Spetta solo al coniuge affidatario, infatti, l'utilizzo in concreto della somma versata in favore della prole, godendo in tale utilizzo di una discrezionalità comunque limitata dai paletti posti dallo stesso art. 570 c.p.

Se un soggetto è debitore e creditore verso due settori della P.A., questa può opporre la compensazione

Non è raro che un soggetto vanti un credito verso un settore della Pubblica Amministrazione (es. credito d’imposta) e un debito verso un altro (es. oneri concessori). Ebbene, in questi casi la P.A. può sospendere il pagamento per opporre successivamente la compensazione e stabilire se sussista una differenza da pagare.
Con sentenza del 12 marzo 2010, n. 6038, gli Ermellini hanno stabilito che ai sensi dell'art. 69, comma 6, del R.D. n. 2440 del 1923 un'amministrazione dello Stato che abbia a qualsiasi titolo ragioni di credito verso aventi diritto a somme dovute da altre amministrazioni, può richiedere la sospensione del pagamento di dette somme. Tale disposizione configura uno strumento cautelare provvisorio diretto a legittimare la sospensione temporanea del pagamento di debiti liquidi ed esigibili da parte dello Stato a salvaguardia dell'eventuale compensazione con crediti, anche non attualmente liquidi e esigibili, che la stessa o altre branche dell'amministrazione statale, considerate come organi di una stessa persona giuridica, vantino nei confronti del medesimo soggetto, ma essa, facendo esclusivo riferimento ad "un'amministrazione dello Stato" quale soggetto titolare del potere eccezionale in discorso, in mancanza di una normazione espressa, non può considerarsi applicabile ad amministrazioni diverse.

mercoledì 24 marzo 2010

Separazione: la divisione dei beni può essere domandata in pendenza del procedimento di separazione

Con la separazione personale, la comunione legale dei beni esistente tra i coniugi lascia il posto alla comunione ordinaria che può essere sciolta su istanza delle parti. Uno dei problemi sorti sull’argomento riguarda la possibilità di domandare la divisione giudiziale dei beni prima che il procedimento di separazione si concluda con l’omologazione degli accordi o con il passaggio in giudicato della sentenza del Tribunale.
Ebbene, con sentenza del 26 febbraio 2010 n. 4757, la Cassazione è intervenuta sull’argomento chiarendo ancora una volta che la Giurisprudenza costante di questa Corte afferma che lo scioglimento si perfeziona con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale (o l'omologa di quella consensuale) (per tutte, Cass. n. 8643 del 1992; n. 2944 del 2001). Nel passaggio in giudicato (o nell'omologa) si individua dunque il momento in cui sorge l'interesse ad agire, concreto ed attuale, volto allo scioglimento della comunione e alla divisione, ma esso può anche riguardarsi come il fatto costitutivo del diritto ad ottenere tale scioglimento e la conseguente divisione.
Tali elementi non possono che qualificarsi come condizioni dell'azione, e non già come presupposti processuali, per cui è sufficiente che tali condizioni esistano al momento della pronuncia, e non necessariamente a quello della domanda (per tutte, Cass. n. 21100 del 2004).
In particolare il passaggio in giudicato (o l'omologa), come elemento decisivo della vicenda costitutiva del diritto allo scioglimento della comunione legale, comporta che tale vicenda debba ritenersi compiutamente realizzata, con la conseguenza che l'eventuale carenza o incompletezza originaria diviene irrilevante, perchè sostituita dalla realizzazione compiuta del fatto costitutivo del diritto azionato, e non può precludere la pronuncia di merito.

Le condizioni che legittimano l’azione legale a tutela dell’ambiente

Con la Decisione del 26/02/2010, n. 1134, il Consiglio di Stato ha disposto che il criterio della vicinitas costituisce la base del riconoscimento della legittimazione ad agire dei singoli che agiscano a tutela del bene ambiente e, in particolare, a tutela di interessi incisi da atti che li ledono direttamente e personalmente, unitamente all'intera collettività che insiste sul territorio.
A tale criterio, tuttavia, va attributo il senso non di stretta contiguità, bensì di stabile e significativo collegamento, da indagare caso per caso, del ricorrente con la zona il cui ambiente si intende proteggere.
Nella specie, tale situazione di stabile e significativo collegamento con l'area destinata alla realizzazione dell'impianto è effettivamente individuabile nell'insistenza delle aziende dei ricorrenti nell'ambito potenzialmente soggetto ad effetti diretti ed indiretti sull'uomo, sulla fauna, sulla flora, sul suolo, sulle acque di superficie e sotterranee, sull'aria, sul clima, sul paesaggio e sull'interazione tra detti fattori, sui beni materiali e sul patrimonio culturale ed ambientale, ossia sugli elementi da valutarsi ai fini del giudizio di compatibilità ambientale del progetto.
E non v'è dubbio che la distanza da 600 a 2000 metri non sia di ostacolo alla configurazione della ripetuta situazione di vicinitas, intesa nel significato predetto, avuto riguardo alla natura ed alla potenzialità dell'impianto autorizzato, in particolare all'enorme quantità ed eterogeneità dei rifiuti di cui si consente lo smaltimento o il recupero e di quelli da stoccare.
In altri termini, tanto basta a qualificare e differenziare la posizione giuridica soggettiva dei ricorrenti ed il loro interesse a far valere l'illegittimità dell'autorizzazione all'installazione ed al funzionamento dell'impianto a tutela dell'integrità delle proprie attività, siano esse agricole o zootecniche, anche con connotati industriali, svolte sui fondi di pertinenza.
Ai sensi dell'art. 208, comma 6, D.Lgs. n. 152 del 2006, sulla base delle risultanze dell'apposita conferenza di servizi la Regione approva il progetto ed autorizza la realizzazione e la gestione dell'impianto.
Non diversamente dall'art. 14-ter, comma 9, L. n. 241 del 1990, lo stesso comma 6 stabilisce che l'approvazione sostituisce ad ogni effetto visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di organi regionali, provinciali e comunali, costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori.
E', dunque, solo tale approvazione, e non il presupposto giudizio di compatibilità ambientale, che si configura come provvedimento finale del procedimento autorizzativo, costitutivo dei previsti effetti esterni, perciò esso solo idoneo ad incidere su posizioni giuridiche soggettive.
Conseguentemente, il relativo termine iniziale di impugnativa non può che coincidere con la notifica o l'acquisizione della piena conoscenza di tale provvedimento.
L'art. 19, comma 1, L. n. 1034 del 1971 prevede che, fino all'intervento di un'apposita legge di procedura, le norme di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato si applicano nei giudizi davanti ai tribunali amministrativi.
Non v'è dubbio, perciò, che la norma relativa alla necessità di mandato speciale, da sempre applicata non solo all'atto introduttivo del giudizio ma anche alla costituzione in giudizio dell'amministrazione resistente, operi per tutti i giudizi in questione, ivi compreso, ovviamente, quello che dà luogo a sentenza in forma semplificata.
Ciò anche e proprio per la mancanza di alcuna deroga al riguardo contenuta nella relativa disciplina.
Ai sensi sia dell'art. 2, lett. b), D.P.R. 12 aprile 1996, sia dell'art. 24, lett. b), D.Lgs. n. 152 del 2006, la valutazione di impatto ambientale deve assicurare che per ciascun progetto siano valutati gli effetti diretti ed indiretti della sua realizzazione sull'uomo, sulla fauna, sulla flora, sul suolo, sulle acque di superficie e sotterranee, sull'aria, sul clima, sul paesaggio e sull'interazione tra detti fattori, sui beni materiali e sul patrimonio culturale ed ambientale.
Nella specie, alcuna di siffatte valutazioni risulta eseguita, atteso che nella relazione istruttoria le informazioni inerenti l'area in cui è prevista l'ubicazione delle opere sono limitate all'indicazione della destinazione urbanistica a zona industriale di progetto del lotto di insediamento e del relativo accesso.
Né in alcun altra parte della relazione vi è traccia delle ridette valutazioni e, in particolare, manca ogni considerazione sulla stessa esistenza di insediamenti produttivi circostanti o comunque da ritenere viciniori nei sensi sopra espressi.

martedì 23 marzo 2010

Illegittimo l’accertamento delle infrazioni al codice della strada operato dai privati

La Cassazione si è nuovamente pronunciata sulla legittimità dell’accertamento delle infrazioni al codice della strada, ribadendo ancora una volta un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato e di cui si era già parlato in un recentissimo post.
Con la sentenza del 17/03/2010, n. 10620, infatti, i Supremi Giudici hanno stabilito che: l'accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale ricade tra le attività previste dall'art. 11 lett. A Codice della strada e quindi costituisce servizio di polizia stradale, non delegabile a terzi; le apparecchiature eventualmente utilizzate per tale accertamento debbono essere gestite direttamente da parte degli organi di polizia stradale e devono essere nella loro disponibilità (art. 345.4 Reg, Cds); le spese afferenti l'eventuale noleggio delle apparecchiature rientrano tra le "spese di accertamento" (art. 201.4 C.d.s.), e la loro disciplina non può che essere quella propria connessa alla natura di tali spese; il parametro per la loro quantificazione - del tutto idoneo a consentire la quantificazione anche dell'importo per un eventuale appalto, nel caso di noleggio degli strumenti e di servizi accessori connessi alla peculiare tipologia di strumento, ovviamente diversi dalla fase di accertamento riservata, come visto, in via esclusiva all'organo di polizia stradale - è agevolmente individuabile dal costo giornaliero connesso all'installazione, manutenzione, servizio accessorio; in particolare tale costo è all'evidenza uguale per qualsiasi operazione, giacché l'entità della sanzione propria della singola infrazione eventualmente accertata è parametro del tutto non pertinente, estraneo ed irrilevante, quanto alla spesa sostenuta per ogni singola operazione: la "quantità" dell'importo di appalto è il costo del servizio, a prescindere dal numero e dalla "qualità" delle infrazioni poi eventualmente accertate utilizzando quel servizio; da ciò si evince che esiste un costo di accertamento (nel senso onnicomprensivo prima indicato) quantificabile a prescindere del tutto dal tipo di infrazione accertata e che il parametro dell'entità della sanzione quale modalità di determinazione del corrispettivo - e pertanto come base di un appalto connesso all'utilizzazione delle apparecchiature strumentali - è incompatibile con i principi generali della disciplina contabile pubblica in materia di spese di accertamento (di talché sono messi al bando gli autovelox i cui costi giornalieri, che divengono incasso per la ditta appaltatrice, lievitano con il crescere del numero delle contravvenzioni); tenuto infine conto della finalità preventiva, e non repressiva o di finanziamento pubblico o lucro privato della disciplina sanzionatoria, determinare il costo del noleggio delle apparecchiature in base agli importi delle multe è un parametro «contrario ai principi della Costituzione» (principio del buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione) ex art. 97 Cost..

Verbale: l’errore sulla sanzione accessoria non determina la nullità dell’atto

Con la sentenza del 22/02/2010, n. 4151, la Cassazione ha statuito che se in un verbale di accertamento di illecito stradale sia inserita l’indicazione di una sanzione accessoria, detta indicazione, pur non rientrando nel contenuto necessario dell’atto legalmente tipizzato, fa tuttavia parte del contenuto dell’atto in concreto adottato ed e’, dunque, per un verso sottoposta, con esso, alla valutazione di legittimita’ o illegittimita’; ma, per altro verso, l’erroneita’ della indicazione dell’entita’ della sanzione non puo’ comportare, per il principio di conservazione valevole anche per gli atti amministrativi, l’annullamento dell’intero atto, essendo sufficiente l’annullamento parziale dello stesso con rettifica della erronea indicazione.

sabato 20 marzo 2010

Il ritiro della patente per guida in stato di ebbrezza può essere impugnato innanzi al Giudice di Pace

La guida sotto l’effetto dell’alcool costituisce un reato che può essere ulteriormente sanzionato dal Prefetto con la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente. Tale provvedimento è impugnabile innanzi al Giudice di Pace, il quale deve verificare la legittimità del provvedimento amministrativo di sospensione, appurando la verificazione del fatto (la guida in stato di ebbrezza) che ne costituisce l’antefatto logico-giuridico.
Con sentenza del 28 ottobre 2009, n. 22844, la Cassazione ha ulteriormente ribadito tale concetto disponendo che nella causa da essa presa in esame, correttamente il giudice di pace ha ritenuto la propria competenza in ordine alla impugnazione da parte del conducente del provvedimento di ritiro della patente di guida operato dagli agenti accertatori al momento dalla contestazione della violazione dell'art. 186 C.d.S., comma 2, per guida in stato di ebbrezza alcolica, conformemente a giurisprudenza di questa Suprema Corte (vedi l'ordinanza della Sezione 2^ n. 14932 del 2005, nonchè, da ultimo, SS.UU. sent. n. 2519 del 2006).

L’infrazione rilevata con l’autovelox non può essere accertata dai privati

Spesso i Comuni affidano interamente ai privati la gestione delle apparecchiature autovelox, consentendo loro persino il rilevamento delle infrazioni al codice della strada.
Sull’argomento è intervenuta la Cassazione che, con ordinanza del 28 gennaio 2010, n. 1955, ha confermato il precedente orientamento giurisprudenziale, disponendo che in tema di violazioni di norme sui limiti di velocità accertate a mezzo di strumento elettronico omologato (cosiddetto "autovelox"), il momento decisivo dell'accertamento è costituito dal rilievo fotografico, cui deve, necessariamente, presenziare uno dei soggetti ai quali l'art. 12 C.d.S. demanda l'espletamento dei servizi di polizia stradale, e che non può essere effettuato, in via esclusiva, da soggetti privati. La fonte principale di prova delle risultanze dello strumento elettronico è, pertanto, costituita dal negativo della fotografia, documento che individua con certezza il veicolo e ne consente il riferimento alle circostanze di fatto, di tempo e di luogo indicate (Cass. 2202/2008, 16713/2003)".
In particolare, si deve sottolineare come questa Corte abbia ulteriormente affermato che, "nel caso di infrazioni al codice della strada per eccesso di velocità, accertate a mezzo di apparecchiature elettroniche, l'assistenza tecnica di un privato operatore, limitata all'installazione ed all'impostazione dell'apparecchiatura secondo le indicazioni del pubblico ufficiale, non interferisce sull'attività di accertamento poi direttamente svolta da quest'ultimo ed, anzi, offre agli utenti della strada nei confronti dei quali è effettuato il controllo una più sicura garanzia di precisione nel funzionamento degli strumenti di rilevazione ove tenuti sotto sorveglianza da parte di personale tecnico specializzato. Nessuna violazione, quindi, sussiste al principio che riserva ai pubblici ufficiali i servizi di polizia stradale in generale (artt. 11 e 12 C.d.S.) ed in particolare la gestione delle apparecchiature elettroniche per l'accertamento delle infrazioni (art. 345 reg. esec. C.d.S., comma 4) (Cass., n. 22816 del 2008);

mercoledì 17 marzo 2010

Le Sezioni Unite individuano l’istante in cui le società cessano di esistere

La riforma del diritto societario operata dal recente D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 ha creato un conflitto giurisprudenziale in seno alla Cassazione sull’interpretazione della disciplina in materia di cancellazione delle società dal registro delle imprese, che la sentenza in esame punta a dirimere in modo definitivo.
Infatti, con la sentenza del 22 febbraio 2010, n. 4062, le Sezioni Unite della Cassazione hanno sancito che l’art. 2495, comma secondo, c.c. come modificato dall’art. 4, D.Lgs. n. 6 del 2003 è norma innovativa e ultrattiva che, in attuazione della legge di delega, disciplina gli effetti delle cancellazioni delle iscrizioni di società di capitali e cooperative intervenute anche precedentemente alla sua entrata in vigore (1 gennaio 2004), prevedendo a tale data la loro estinzione, in conseguenza della indicata pubblicità e quella contestuale alle iscrizioni delle stesse cancellazioni per l’avvenire e riconoscendo, come in passato, le azioni dei creditori sociali nei confronti dei soci, dopo l’entrata in vigore della norma, con le novità previste agli effetti processuali per le notifiche intraannuali di dette citazioni, in applicazione degli artt. 10 e 11 delle Preleggi e dell’art. 73, ultimo comma, Costituzione.
La modifica dell’articolo 2495 del Codice civile deve essere interpretata nel senso che l’iscrizione nel Registro delle Imprese delle società di persone, come la fine della loro legittimazione e soggettività è soggetta a pubblicità di natura dichiarativa.
Dal 1° gennaio 2004, per le società di persone, esclusa la efficacia costitutiva della cancellazione iscritta nel registro, può affermarsi la efficacia dichiarativa della pubblicità della cessazione dell’attività di impresa collettiva, opponibile dal 1° luglio 2004 ai creditori che agiscano contro i soci, ex artt. 2312 e 2324 c.c., norme in base alle quali si giunge ad una presunzione del venir meno della capacità e legittimazione di esse anche se perdurino rapporti o azioni in cui le stesse società sono parti.
La natura costitutiva riconosciuta per legge a decorrere dal 1° gennaio 2004 degli effetti delle cancellazioni già iscritte e di quelle future per le società di capitali che con esse si estinguono, comporta, anche per quelle di persone, che, a garanzia della parità di trattamento dei terzi creditori di entrambi i tipi di società, si abbia una vicenda estintiva analoga con la fine della vita di queste contestuale alla pubblicità, la quale resta dichiarativa degli effetti da desumere dall’insieme delle norme pregresse e di quelle novellate che, per analogia juris determinano una interpretazione nuova della disciplina pregressa della società di persone.

Spese giudiziarie: la compensazione deve essere adeguatamente motivata

Al termine del processo, con la sentenza che decide la causa, il giudice si pronuncia anche sulle spese giudiziarie ponendole a carico della parte soccombente o disponendone la compensazione, per effetto della quale ciascuna parte sopporta le proprie, qualora entrambe le domande abbiano trovato almeno un parziale accoglimento.
Dall’analisi dell’evoluzione normativa su questa problematica (che per la compensazione adesso non richiede più “gravi motivi”, ma “gravi ed eccezionali ragioni”) emerge in modo chiaro che il Legislatore ha inteso creare un sistema per cui la compensazione operi solo in casi eccezionali da motivare opportunamente.
Troppo spesso, però, i giudici usano la formula di “stile” della compensazione delle spese senza che la stessa abbia un reale collegamento con quanto accertato nel processo non ottemperando al connesso obbligo di motivazione.
Sulla base di queste ragioni, la Cassazione, con l’Ordinanza del 12 novembre 2009 - 22 febbraio 2010, n. 4159, ha ribadito che il ricorso alla Suprema Corte per difetto di motivazione della compensazione delle spese è motivato in base al disposto dell'art. 92, secondo comma, c.p.c., nel testo modificato dall'art. 2, primo comma, lett. a), l. 28 dicembre 2005 n. 263, secondo cui i motivi per i quali il giudice ritiene di disporre la compensazione fra le parti delle spese processuali devono essere “esplicitamente indicati”.

lunedì 15 marzo 2010

Grava sul contribuente l’onore di provare che la motivazione per relationem è insufficiente

Com’è noto ogni atto della P.A. deve essere adeguatamente motivato per far sì che i cittadini comprendano le ragioni che ne hanno determinato l’adozione e possano operare un connesso controllo di legittimità. Non è raro, però, che l’amministrazione tributaria adotti un atto rinviando alla motivazione contenuta di un atto separato redatto, ad esempio, dalla Guardia di Finanza in fase di accertamento.
Ebbene, in merito a tale fattispecie, la Cassazione, con sentenza del 10/02/2010, n. 2908, ha elaborato i seguenti principi: l’atto amministrativo d’imposizione tributaria può essere motivato per relationem ad un atto istruttorio del procedimento; il rinvio motivazionale dell’atto amministrativo d’imposizione tributaria ad un atto istruttorio dev’essere adeguato;
l’accertamento giudiziale dell’adeguatezza della motivazione per relationem dell’atto amministrativo d’imposizione tributaria dev’essere adeguatamente motivato;
l’accertamento in sede di giudizio di legittimità dell’adeguatezza della motivazione per relationem dell’atto amministrativo d’imposizione tributaria dev’essere specificamente contestato dal ricorrente;
Principi, quelli succitati, che la medesima Corte aveva già fissato con le sentenze n. 8690/2002 e n. 10205/2003, con le quali aveva disposto che la motivazione degli atti di accertamento "per relationem", con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura, che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio.
Inoltre, la misura del richiamo è affidata alla scelta dell’organo decidente e la "pedissequa utilizzazione" dell’atto istruttorio è un fatto che il giudice di merito non può censurare di per sé, ma solo in base alla constatazione che dal richiamo globale dell’atto strumentale sia derivata, paradossalmente per eccesso del rinvio, un’inadeguatezza, o insufficienza, della motivazione dell’atto finale. L’autorità decidente deve, invero, guardarsi bene dal richiamare nella sua interezza un determinato atto, perché, se esso fosse eccedente rispetto alla decisione e la sua dimensione e la sua articolazione fossero tali da impedire alla motivazione, anche per relationem, di svolgere la sua funzione garantistica di pubblicità dell’azione amministrativa a favore del destinatario, l’allegazione dell’atto richiamato non salverebbe la decisione dall’invalidità derivante da quella che paradossalmente potrebbe chiamarsi "insufficienza di motivazione per eccesso di motivazione.

L’ipoteca non può essere iscritta se il debito del contribuente non supera € 8.000

Importante sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che, con sentenza del 22 febbraio 2010, n. 4077, ha deciso che al pari delle controversie in tema di fermo di beni mobili di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 86, (che appartengono alla giurisdizione delle Commissioni Tributarie solo se il fermo e stato eseguito a garanzia del soddisfacimento di crediti di natura tributaria: C. Cass. 2008/14831 e 2009/6593), anche quelle in tema d'iscrizione ipotecaria rientrano nella giurisdizione delle Commissioni soltanto nel caso in cui siano state effettuate per ottenere il pagamento d'imposte o tasse (C. Cass. 2009/6594); Inoltre, l'ipoteca, rappresentando un atto preordinato e strumentale all'espropriazione immobiliare, soggiace al limite per essa stabilito e pertanto non può essere iscritta se il debito del contribuente non supera gli 8.000,00 Euro.

venerdì 12 marzo 2010

Contestazione del verbale fuori termine: possibile se la responsabilità è della P.A.

Com’è noto, in materia di circolazione stradale, il verbale di contravvenzione può essere contestato entro 150 giorni dall’accertamento dell’infrazione. E’ legittimo chiedersi, però, cosa succede se l’identificazione del conducente avviene successivamente alla violazione del codice della strada e che ruolo ha il suo eventuale cambio di residenza regolarmente comunicato all’ufficio competente.
Con sentenza del 20 gennaio 2010, n. 928, la Cassazione ha chiarito che in seguito della dichiarazione di illegittimita’ dell’art. 201 C.d.S., comma 1 (Corte cost. n. 198 del 1996), nella parte in cui, in caso di identificazione del trasgressore successiva alla violazione, stabiliva che il termine di centocinquanta giorni per la notificazione della contestazione decorresse dalla data dell’avvenuta identificazione, anziche’ da quella in cui risultava dai pubblici registri l’intestazione del veicolo o le altre qualifiche del soggetto responsabile, o comunque dalla data in cui la P.A. era posta in grado di provvedere all’identificazione, qualora l’interessato abbia provveduto alla tempestiva comunicazione della variazione anagrafica e l’amministrazione non abbia proceduto all’aggiornamento dei relativi archivi, la notifica effettuata al precedente indirizzo del contravventore risultante dagli archivi non aggiornati non puo’ ritenersi correttamente eseguita, non potendo il ritardo dell’amministrazione nell’aggiornare i propri archivi produrre effetti negativi nella sfera giuridica del cittadino che abbia tempestivamente comunicato la variazione della propria residenza (Cass. 24673/2006), altrimenti, a stregua di quanto sottolineato dalla richiamata pronuncia della Corte costituzionale l’inerzia o le disfunzioni organizzative della P.A. verrebbero a gravare direttamente sul diritto di difesa del cittadino, il quale - a considerevole distanza di tempo dall’infrazione - potrebbe non essere in grado di esercitare le relative facolta’ per salvaguardare i propri interessi.
Il verbale, pertanto, è contestabile.

L’onere della prova in materia di fittizie operazioni per l’indebita detrazione IVA

Al fenomeno dell’indebita detrazione per IVA riguardante operazioni fittizie, che continua a essere di stretta attualità come confermato dalla quotidiana cronaca giudiziaria, è connessa la problematica su chi gravi l’onere probatorio volto a mostrare o meno la veridicità delle stesse.
Sull’argomento è intervenuta la Cassazione con sentenza n. 4013, del 19/02/2010, dalla cui analisi si può evincere che il contribuente può detrarre, salvo che il Fisco rinvenga dati analitici concretamente riferiti a operazioni determinate, che rendano verosimile la frode (tipicamente, l’assenza di mezzi operativi del fornitore, anomalie nelle consegne o nelle compagini societarie e simili), invertendo, non in senso tecnico ma nel fisiologico sistema di prova e controprova, l’assetto probatorio.
Ne deriva che qualora l’attività della parte rende verosimile un certo quadro e non intervengono elementi nuovi, la prova è raggiunta.

giovedì 11 marzo 2010

L’indennità per l’eccessiva durata dei processi si prescrive in dieci anni

Come già detto in precedenti post pubblicati su questo blog, ai quali si rinvia per una più approfondita analisi, coloro che sono vittima della eccessiva durata dei processi possono ottenere un’indennità a titolo di “ristoro” per i danni patrimoniali e non che ne sono presuntivamente derivati.
Ebbene, con sentenza del 4/02/2010, n. 4524, la Cassazione ha statuito che il suddetto diritto, nascente per effetto della violazione della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, § 1, della Convenzione, ad una equa riparazione, secondo quanto previsto dall’art. 2 della legge 24 marzo 2001 n. 89, ha natura indennitaria e non risarcitoria, e ad esso non è applicabile il termine di prescrizione breve di cinque anni previsto dall’art. 2947 c.c., ma quello ordinario di 10.

La detrazione è possibile se il contribuente prova che il bene è inerente all’attività

Ponendosi nel già esistente solco giurisprudenziale di legittimità, con la sentenza del 17/02/2010, n. 3706, la Cassazione ha sostenuto che l’art. 19, comma 1, D.P.R. n. 633/1972, pur consentendo all’acquirente di portare in detrazione l’imposta addebitatagli a titolo di rivalsa dal venditore, ancorché si tratti di acquisto effettuato nell’esercizio di impresa, richiede, oltre alla qualità d’imprenditore dell’acquirente, anche l’inerenza del bene acquistato all’attività imprenditoriale, intesa come strumentalità del bene stesso rispetto a detta specifica attività, la cui prova si deve ritenere posta a carico di chi chiede la detrazione medesima.

mercoledì 10 marzo 2010

La responsabilità del lavoratore in caso di suo infortunio

La Cassazione è tornata a pronunciarsi in materia di infortuni sul lavoro, riasserendo il principio secondo cui al datore di lavoro non è imputabile alcuna responsabilità se l’infortunio del suo dipendente sia da mettere in relazione al comportamento colposo di quest’ultimo.
Con sentenza penale del 23/02/2010, n. 7267, infatti, i Supremi Giudici hanno statuito che quando il comportamento del lavoratore, e le sue conseguenze, presentino i caratteri dell’eccezionalità e dell’abnormità gli effetti finali sono da imputare esclusivamente al lavoratore stesso. Per carattere “abnorme” deve intendersi non solo, secondo quanto prevalentemente sostenuto in giurisprudenza, la condotta tenuta in un “ambito estraneo” alle mansioni affidate al lavoratore e, pertanto, concettualmente al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro, ma anche quella che pur rientrando nelle “mansioni proprie” del lavoratore sia consistita in qualcosa di radicalmente e ontologicamente lontano dalle pur ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nell’esecuzione del lavoro.

La posizione della Cassazione in materia di danno da dequalificazione professionale

Con sentenza del 22/02/2010, n. 4063, le Sezioni Unite della Cassazione si pronunciano sul danno derivante da dequalificazione professionale, specificando come deve essere provato, in presenza di quali condizioni esso si verifichi e quali interessi devono essere lesi.
Relativamente alla prova del danno, i Supremi Giudici confermano il precedente indirizzo giurisprudenziale (Cass. n. 6572 del 24/03/2006; Cass. n. 29832 del 19/12/2008), sostenendo che, in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo, dovendo il danno non patrimoniale essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno.
Inoltre, la Corte chiarisce che nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale (artt. 32 e 37 Cost.), il danno non patrimoniale è configurabile ogni qualvolta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti della persona del lavoratore, concretizzando un "vulnus" ad interessi oggetto di copertura costituzionale; questi ultimi, non essendo regolati "ex ante" da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi - concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili - dai danni che vanno risarciti, mediante una valutazione supportata da una motivazione congrua, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi giuridici applicabili alla materia, sottratta, come tale, anche quanto alla quantificazione del danno, a qualsiasi censura in sede di legittimità (Cass. n. 10864 del 12/05/2009).
La liquidazione del danno non patrimoniale, infine, non può essere simbolica, dovendo essere adeguata all'entità del pregiudizio effettivo subito dal lavoratore; il quale deve essere valutato nel suo complesso, considerando la persistenza del comportamento lesivo (sia pure in mancanza di intenti di discriminazione o di persecuzione idonei a qualificarlo come mobbing), la lunga durata delle reiterate situazioni di disagio professionale e personale, consistite, fra l'altro, nel dover operare in un locale piccolo e fatiscente e privo di computer, nonché l'inerzia dell'amministrazione rispetto alle richieste del dipendente intese a non compromettere il suo patrimonio di esperienza e qualificazione professionale.

venerdì 5 marzo 2010

Il mandato per riscuotere il credito deve essere portato a conoscenza del debitore

Non è raro che nell’ambito di un rapporto contrattuale il creditore della prestazione conferisca mandato a un altro soggetto per procedere alla riscossione. Si pensi, al riguardo, alle pigioni di un contratto di locazione che il proprietario del bene riscuote “servendosi” di un familiare cui conferisce opportuno mandato.
Ebbene, se tale mandato non viene portato a conoscenza del debitore, nel nostro esempio il conduttore, questi non è obbligato a pagare.
E’ questa la conclusione della Corte di Cassazione la quale, con sentenza della Sez. II, del 13 novembre 2009, n. 24128, ha chiarito che pur convenendo con l'affermazione secondo la quale il conferimento di un mandato a riscuotere un credito non è soggetto particolari forme e, pertanto, ben avrebbe potuto essere contenuto in una scrittura privata con sottoscrizione non autenticata, deve tuttavia osservarsi che la preposizione, da parte del creditore, di un altro soggetto, incaricato di riscuotere in propria vece, il credito, per poter spiegare effetti nei confronti del debitore, deve essere preventivamente ed adeguatamente portata a conoscenza di quest'ultimo.
Siffatto principio si desume dalla giurisprudenza della stessa Corte, che con pronunce sia pur non recenti (n. 568/83, n. 735/67), ma non superate da successive di segno contrario, ha avuto modo di affermare che "la figura dell'adiectus solutionis causa - che è il soggetto indicato dal creditore, a chi sia obbligato nei suoi confronti, come la persona incaricata di ricevere la prestazione in nome proprio, ma per conto di esso creditore - non solo presuppone la costituzione del vincolo obbligatorio, ma implica che su di esso si sia innestato un rapporto trilaterale, in virtù del quale il creditore abbia indicato al debitore la persona legittimata a ricevere l'adempimento, in sua vece.
Il debitore che paghi in mancanza di un mandato opportunamente comunicatogli dal creditore, infatti,
si troverebbe esposto, nel caso di mancata successiva ratifica da parte del dominus, alle conseguenze di un incauto pagamento, inefficace, agli effetti dell'art. 1188 c.c., nei confronti del creditore, rimanendo pertanto obbligato verso quello (v. Cass. 17742/05, 2732/02, 2093/97).

L’autovelx non è soggetto a periodici controlli di taratura

Un’altra importante sentenza della Cassazione ribadisce che l’apparecchio per il rilevamento elettronico della velocità regolarmente omologato non è soggetto ai controlli di taratura.
Infatti, con sentenza della Sez. II, del 14 dicembre 2009, n. 26211, gli Ermellini hanno stabilito che questa Sezione ha già statuito che in tema di sanzioni amministrative per violazioni al codice della strada, le apparecchiature elettroniche regolarmente omologate utilizzate per rilevare le violazioni dei limiti di velocità stabiliti, come previsto dall'art. 142 codice della strada, non vanno sottoposte ai controlli previsti dalla legge n. 273 del 1991, istitutiva del sistema nazionale di taratura. Tale sistema di controlli, infatti, attiene alla materia cd metrologica diversa rispetto a quella della misurazione elettronica della velocità ed è competenza di autorità amministrative diverse, rispetto a quelle pertinenti al caso di specie (Cass. 23978/07; adde Cass. 29333/08). La sentenza citata, come le altre coeve, ha esaminato e risolto tutte le problematiche in argomento e a questo orientamento occorre dare seguito.
Le multe rilevate con i suddetti apparecchi, pertanto, sono legittime.

mercoledì 3 marzo 2010

La Cassazione interviene su uno dei requisiti per ottenere le agevolazioni prima casa

L’acquirente di una casa non di lusso che voglia beneficiare del regime tributario agevolato previsto per la prima casa, non deve essere, tra l’altro, proprietario di altra casa d’abitazione nel territorio del comune in cui è situato l'immobile da acquistare.
Sulla nozione di “altra casa di abitazione” si è da sempre discusso, poiché secondo alcuni tale definizione sarebbe da intendere in senso oggettivo e consentirebbe le agevolazione a condizione che l’acquirente non possieda altri appartamenti; secondo altri, invece, dovrebbe interpretarsi soggettivamente e permetterebbe a chi sia già proprietario di altro immobile di godere delle agevolazioni prima casa a condizione che questo non sia concretamente utilizzabile (ad es. per mancanza di abitabilità o per eccessiva lontananza dal posto di lavoro).
Con ordinanza dell’8 gennaio 2010, n. 100, la Cassazione è intervenuta sulla problematica stabilendo che occorre, invero, osservare che, secondo consolidati canoni ermeneutici di questa Corte (che non vi è motivo di disattendere), in tema di agevolazioni tributarie e con riguardo ai benefici per l'acquisto della "prima casa", l'art. 1, comma 4, e nota 2^ bis, della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 - nel prevedere, tra le altre condizioni per l'applicazione dell'aliquota ridotta dell'imposta di registro, la non possidenza, di altra abitazione - si riferisce, anche alla luce della ratio della disciplina, ad una disponibilità non meramente oggettiva, bensì soggettiva, nel senso che ricorre il requisito dell'applicazione del beneficio, anche all'ipotesi di disponibilità di un alloggio che non sia concretamente idoneo, per dimensioni e caratteristiche complessive, a sopperire ai bisogni abitativi suoi e della famiglia (cfr. Cass. 11564/06, 17938/03, 10935/03, 6492/03, 2418/03).

martedì 2 marzo 2010

Pirateria informatica: responsabilità dei gestori dei siti e divieto d’accesso … a internet!

La sentenza della Cassazione 29 settembre - 23 dicembre 2009, n. 49437, si segnala per i principi che fissa, alcuni dei quali anche di segno contrario rispetto ai precedenti.
I giudici della Cassazione, infatti, ritengono che l’utilizzo di tecnologie di trasmissione peer-to-peer (quelle cioè che consentono il trasferimento di file direttamente tra utenti, anziché dal sito web all’utente) non esclude la configurabilità del reato di cui all’art. 171, comma 1, lett. A-bis, L.D.A. (che punisce l’attività di chi metta a disposizione del pubblico attraverso internet opere protette dal diritto d’autore) da parte del titolare del sito web. E ciò sebbene, attraverso la tecnologia in questione, il titolare del sito non “detenga” mai nei propri database l’opera protetta, che al contrario si trova presso gli utenti, e da questi stessi trasferita ad altri soggetti.
In tale ipotesi – ferma restando l’illiceità della condotta degli utenti che uploadano i file, mettendoli a disposizione di altri – anche il titolare del sito web concorre nel medesimo reato, qualora non si limiti a mettere a disposizione degli utenti il protocollo di comunicazione peer-to-peer, ma faccia qualcosa di più, come ad esempio indicizzare le informazioni che provengono dagli utenti, rendendo più facile l’individuazione delle opere magari attraverso un motore di ricerca.
Inoltre, secondo i Supremi Giudici, è legittima l’ordinanza cautelare che non si limiti al sequestro di un sito web illegale, ma disponga che gli ISP (Internet Service Provider) – pur estranei al reato – inibiscano agli utenti l’accesso al sito.
In tal caso il provvedimento cautelare assume un contenuto complesso: da un lato, quello tipico del sequestro preventivo, di carattere reale, legittimo anche nei confronti di un sito web, poiché ha ad oggetto l’apprensione di una res non necessariamente materiale (giurisprudenza costante a riguardo). Dall’altro, una vera e proprio inibitoria, priva del carattere reale, ma non per questo illegittima se rispettosa dei principi di legalità e tipicità.
E invero, il D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 70 (in attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa ai servizi della società dell’informazione) configura in capo all’autorità giudiziaria uno speciale potere inibitorio, in deroga al principio della libera circolazione dei servizi di accesso alla rete internet, che le consente di ordinare agli ISP di precludere agli utenti l’accesso alla rete internet, al fine di evitare il perpetrarsi del reato di cui all’art. 171-ter, comma 2, lett. a-bis L.D.A..
L’ultimo principio che si segnala per la netta inversione, riguarda la competenza territoriale, in quanto la Cassazione ha respinto l’eccezione di difetto giurisdizione fondata sulla mera localizzazione all’estero dell’hardware del sito, perché, ritenendo i titolari del sito responsabili del reato in esame in “concorso” con l’utente finale, ha applicato l’art. 6 c.p. al caso di specie. Ne discende che, poiché il reato – attraverso il download dell’utente – si perfeziona nel territorio italiano, a nulla rileva che l’attività di trasmissione dei dati attraverso la rete internet avvenga al di fuori dei confini nazionali, essendo sufficiente che una parte dell’azione penalmente rilevante sia avvenuta nel territorio dello Stato per considerare l’illecito come commesso in Italia.

Se percepiva un beneficio durevole, prolungato e spontaneo, il figlio della vittima ha diritto al risarcimento

Successivamente al decesso del proprio genitore a causa di un errore medico, il figlio della vittima adiva la via legale per vedersi riconosciuto l’ulteriore danno consistente nella mancata percezione delle elargizioni del genitore scomparso, ed ottenere così il conseguente risarcimento.
Con sentenza del 26 gennaio 2010, n. 1524, i Supremi Giudici della Cassazione hanno stabilito che in tema, la giurisprudenza ha già avuto modo di spiegare che il fatto che il figlio della vittima, deceduta a seguito di un fatto illecito altrui, sia maggiorenne ed economicamente indipendente non esclude la configurabilità (e la conseguente risarcibilità) del danno patrimoniale da lui subito per effetto del venir meno delle provvidenze aggiuntive che il genitore gli destinava, posto che la sufficienza dei redditi del figlio esclude l'obbligo giuridico del genitore di incrementarli, ma non il beneficio di un sostegno durevole, prolungato e spontaneo, sicchè la perdita conseguente si risolve in un danno patrimoniale, corrispondente al minor reddito per chi ne sia stato beneficato (Cass. 8 ottobre 2008, n. 24802; 14 luglio 2003, n. 11003). Ciò è perfettamente aderente con la funzione che svolge l’istituto del risarcimento del danno, che non ha scopi sanzionatori, ma mira a reintegrare la condizione sussistente prima che si perpetrasse l’illecito.

lunedì 1 marzo 2010

Multe: illegittimo il verbale che preveda il solo pagamento alla posta

Con la sentenza del 12/02/2010, il Giudice di Pace di Palermo ha ritenuto nullo il verbale contenente una sola modalità di pagamento delle due previste dalla legge. Secondo il Giudice, infatti, interpretando letteralmente il dispositivo normativo, appare evidente che il pagamento puo’ ( nel senso di “ deve “ ) essere effettuato in alternativo o presso l’ente accertatore, ossia il Comando di Polizia Municipale o a mezzo di versamento in conto corrente postale: queste le due ipotesi-base, alternative fra loro e legislativamente previste, dunque obbligatorie in ogni fattispecie di infrazione al codice della strada.
La terza ipotesi considerata, ossia il versamento in conto corrente bancario, rappresenta una terza alternativa, obbligatoria ex lege solo “se l’amministrazione (nella specie il Comando di Polizia Municipale) la prevede.
Sulla scorta del dettato legislativo di cui all’art. 202 del C.d.s., ed in base ai principi giuridici espressi dalla giurisprudenza amministrativista, per il Giudice il verbale di contestazione impugnato dall’opponente appare illegittimo, in quanto non rispettoso della normativa di riferimento ( art. 202 C.d.s. ), prevedendo unicamente il pagamento in misura ridotta a mezzo di conto corrente postale, e pertanto va annullato in base al combinato disposto di cui agli artt. 21 octies legge n. 241 del 1990 e 1 comma 2 legge 689/81.

Il licenziamento per il superamento del periodo di comporto non è soggetto a decadenza

Il comporto è l’arco temporale durante il quale sussiste il divieto di licenziamento del lavoratore, assente per malattia o infortunio, ai sensi e per gli effetti dell'art.2110 c.c..
Con sentenza del 28/01/2010, n. 1861, la Cassazione ha stabilito che l’impugnazione del licenziamento per il superamento del periodo di comporto è soggetta esclusivamente al termine di prescrizione lungo dei dieci anni e non anche al termine di decadenza di sessanta giorni, di cui alla generale disciplina dei licenziamenti individuali dettata dalla legge n. 604 del 1966. In particolare, poiché il termine di decadenza non è applicabile necessariamente in tutti i casi di recesso da parte del datore, in quanto il termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento previsto dall'art. 6 l. n. 604 del 1966 deroga al principio generale desumibile dagli art. 1421 e 1422 c.c., secondo il quale, salvo diverse disposizioni di legge, la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e l'azione per farla dichiarare non è soggetta a prescrizione.
Ne consegue che, sotto questo profilo, lo disposizione di cui al citato art. 6, l. n. 604 del 1966 è da considerarsi di carattere eccezionale e non è perciò applicabile, neanche in via analogica, ad ipotesi di nullità del licenziamento che non rientrino nella previsione della citata legge. E' pertanto da escludersi che il suddetto termine di sessanta giorni per l'impugnativa sia applicabile ai licenziamenti previsti dall'art. 1, l. n. 7 del 1963 (sul divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio) e dall'art. 2, t. n. 1204 del 1971 (sulla tutela delle lavoratrici madri), dagli art. 1421 e 1422 c.c. (Cass.civ., 30 maggio 1997, n.4809: nello stesso senso, 27 marzo 2003, n. 3022, con riferimento al licenziamento non intimato per iscritto e perciò privo della forma richiesta ad substantiam dalla legge, nonché 14 agosto 2008, n. 21702, per il licenziamento motivato con il superamento dei limiti di età ed il possesso dei requisiti pensionistici nel caso in cui il prestatore abbia esercitata l'opzione per la prosecuzione del rapporto).
Esigenze logiche di coerenza sistematica, secondo la sentenza in epigrafe, impongono allora di estendere il medesimo principio della non applicabilità della norma di carattere eccezionale al recesso per superamento del periodo di comporto, che pure rappresenta una forma speciale di cessazione del rapporto di lavoro, come tale non disciplinata dalla legge di carattere generale n. 604 del 1966, né dalla disciplina della risoluzione per impossibilità sopravventua parziale della prestazione, ma dall'art. 2110 cod.civ, con la conseguenza che l'impugnazione da parte del prestatore di lavoro non è soggetta al termine di decadenza stabilito dall'art. 6 della suddetta legge.