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mercoledì 26 maggio 2010

La Cassazione riconosce al Fisco un potere inaspettato …

Con la sentenza del 19/05/2010, n. 12249, la Cassazione ha trattato il tema dell'abuso del diritto in ambito tributario ritenendo legittimo che il Fisco attribuisca a un contratto una natura giuridica diversa rispetto a quella adottata dalle parti.
I Supremi Giudici, infatti, hanno confermato l’abbandono del risalente suo orientamento (da ultimo, Cass. 5282/02), che precludeva all’Amministrazione finanziaria di rideterminare la natura di un contratto, prescindendo dalla volontà realmente manifestata dalle parti, ed hanno confermato, invece, il nuovo corso interpretativo che permette al Fisco, assumendone l’onere della prova, di esercitare il potere di riqualificare i contratti stipulati dalle parti o di farne rilevare la nullità o invalidità, in modo da dare ingresso ad un trattamento fiscale meno favorevole di quello che consegue agli effetti dello schema contrattuale adottato dalle parti.
Tale principio, a detta dei giudici, si rinviene nel sistema costituzionale, così come già sostenuto dalle Sezioni Unite con le sentenze n. 30055 e 30057/08, e pertanto si estende a tutte le forme di abuso del diritto, compresa quella in ambito fiscale.
Con questa impostazione sono contestabili dal Fisco, e comunque ad esso non opponibili, non solo i comportamenti fraudolenti derivanti dagli schemi negoziali che li configurino, ma anche quelli che comportano un abuso del diritto autonomo rispetto all’ipotesi di frode, aventi carattere meramente elusivo e quindi diretti a conseguire vantaggi di ordine fiscale in assenza di concrete e valide ragioni di natura economica. Connotazioni che possono rinvenirsi in qualsiasi atto negoziale, tipizzato o meno.
Secondo la Suprema Corte, inoltre, il divieto dell’abuso del diritto ricorre anche se il contratto è tipico ed è privo di concrete finalità illecite, oltre che voluto realmente dalle parti, assumendo rilevanza ed essendo solo richiesto che ricorrano oggettivi elementi che inducano a ritenere che si è fatto ricorso ad esso essenzialmente allo scopo di conseguire un vantaggio fiscale. La finalità non deve essere necessariamente esclusiva perché eventuali marginali e non determinanti ragioni economiche concorrenti non scalfiscono questa ricostruzione che fa ritenere l’utilizzo del contratto, tipico o atipico poco importa, come strumento per realizzare un abuso dello schema legale per conseguire finalità di elusione fiscale, essendo intento determinante delle parti quello di ottenere un abbattimento dell’onere fiscale.
L’elemento innovativo sta nell’estensione dell’applicazione dei principi sull’abuso del diritto anche ai contratti tipizzati dal codice civile, che, secondo un’opinione diffusa, non dovrebbero essere manipolabili, al contrario dei contratti atipici (tra tutti ad es. il leasing frazionato o il lease-back). Non è invece servito al contribuente invocare la tipicità del contratto e generici motivi di convenienza organizzativa per fornire la prova, rimessa a suo carico, che l’impiego dello strumento contrattuale in contestazione non aveva il fine essenziale di conseguire un risparmio di imposta.
Nella specie, l’uso del contratto tipizzato del comodato, ai fini della natura abusiva dell’operazione, è stato considerato inconsueto ed anomalo rispetto alla normale funzione di tale negozio giuridico, per cui la sua opponibilità al Fisco richiedeva una giustificazione rigorosa in rilevanti ed evidenti ragioni economiche del tutto sganciate dal trattamento fiscale che ne consegue, che deve costituire un elemento subordinato ed accessorio.
La libertà contrattuale, dunque, sembra fortemente compressa se il fine è quello di ottenere un maggiore risparmio fiscale e il Fisco potrà intervenire su qualunque operazione.
Il confine tra abuso di diritto e lecito risparmio d’imposta si assottiglia lasciando spazio al pericolo di maggiori accertamenti.

Locazione e indennità per perdita dell’avviamento: ecco come dimostrarlo

Con sentenza del 06/05/2010, n. 10962, la Cassazione è intervenuta sulla problematica della prova dei requisiti richiesti per ottenere tale indennità, disponendo che, in generale, in tema di indennità per la perdita dell'avviamento commerciale, la sussistenza del requisito richiesto dall'art. 35 della legge 27 luglio 1978, n. 392, si ravvisa nell'esigenza che l'immobile locato sia utilizzato dal conduttore, nell'esercizio dell'impresa o del lavoro autonomo, come luogo aperto alla frequentazione diretta (senza intermediazione) della generalità originariamente indifferenziata del pubblico per concludere rapporti negoziali con il conduttore, sul quale incombe l'onere di fornire, con qualsiasi mezzo, la prova della sussistenza delle relative condizioni, sempre che siffatta frequentazione non risulti implicitamente, in virtù del notorio, dalla destinazione dell'immobile ad attività che necessariamente la implichi.
Ovvero, in materia di locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, la destinazione dell'immobile all'esercizio dell'attività commerciale, in tanto può determinare l'esistenza del diritto all'indennità per la perdita dell'avviamento, in quanto il conduttore istante provi che il locale possa essere considerato come luogo aperto alla frequentazione diretta della generalità dei consumatori e, dunque, da sé solo in grado di esercitare un richiamo su tale generalità, così divenendo un collettore di clientela ed un fattore locale di avviamento.
Del resto, l’indennità per la perdita dell'avviamento commerciale, prevista dall'art. 34 legge 27 luglio 1978, n. 392, è dovuta al conduttore uscente a prescindere da qualsiasi accertamento circa la relativa perdita ed il danno che il conduttore stesso abbia subito in concreto in conseguenza del rilascio, con la conseguenza che essa spetta anche se egli continui ad esercitare la medesima attività in altro locale dello stesso immobile o in diverso immobile situato nelle vicinanze. Su tali aspetti generali cfr., ad es., Cass. n. 20829 del 2006 e, da ultimo, Cass. n. 6948 del 2010. C
Inoltre, in caso di locazione di immobile per uso promiscuo, cioè per lo svolgimento di attività plurime, alcune soltanto delle quali comportino il contatto diretto con il pubblico degli utenti e dei consumatori ed altre no, la prevalenza del primo tipo di uso rispetto al secondo deve essere provata dal conduttore che, alla cessazione del rapporto, reclami la corresponsione dell’indennità in oggetto, e non dal locatore.
Infine, con tale decisione è stato escluso che, in difetto di contestazione da parte del locatore convenuto, il conduttore che agisca per il versamento dell’indennità in questione abbia l’onere di provare anche che l’attività comportante contatto diretto col pubblico fosse lecitamente svolta sotto il profilo amministrativo, giacché non si ha l’onere di provare i fatti che non siano contestati e poiché corrisponde all’ “id quod plerumque accidit” che chi esercita un’attività commerciale sia munito delle necessarie autorizzazioni per svolgerla.

martedì 25 maggio 2010

La multa senza foto per eccesso di velocità rilevata dal Telelaser è valida se attestata dai verbalizzanti

Con sentenza n. 10924 del 5 maggio 2010, la Cassazione ha osservato che in tema di accertamento delle violazioni dei limiti di velocità a mezzo apparecchiature elettroniche, poiché l’art. 142 cod. str. si limita a prevedere che possono essere considerate fonti di prova le apparecchiature debitamente omologate, e l’art. 345 del regolamento di esecuzione, approvato con d.P.R. n. 495 del 1992, dispone che le suddette apparecchiature, la cui gestione è affidata direttamente dagli organi di polizia stradale, devono essere costruite in modo tale da raggiungere detto scopo fissando la velocità in un dato momento in modo chiaro e accertabile, tutelando la riservatezza dell’utente, senza prevedere che della rilevazione debba necessariamente ed esclusivamente essere attestata da documentazione fotografica, è legittima la rilevazione della velocità di un autoveicolo effettuata a mezzo apparecchiature elettronica denominata “telelaser” - apparecchiatura che non rilascia documentazione fotografica dell’avvenuta rilevazione nei confronti di un determinato veicolo, ma che consente unicamente l’accertamento della velocità in un determinato momento, restando affidata alla attestazione dell’organo di polizia stradale addetto alla rilevazione la riferibilità della velocità proprio al veicolo dal medesimo organo individuato - in quanto l’attestazione dell’organo di polizia stradale ben può integrare, con quanto accertato direttamente, la rilevazione elettronica attribuendo la stessa ad uno specifico veicolo, risultando tale attestazione assistita da efficacia probatoria fino a querela di falso, ed essendo suscettibile di prova contraria unicamente il difetto di omologazione o di funzionamento dell’apparecchiatura elettronica (Cass. 5873/04; 7013/06). Pertanto in presenza di personale dell’amministrazione competente, la verbalizzazione da questi compiuta è garanzia sufficiente dell’affidabilità della rilevazione; per superarla non è quindi sufficienti le opinioni espresse da tre testimoni, il cui apprezzamento, in considerazione dei ridottissimi margini tra la contestazione e la valutazione da essi resa, non può che assurgere a mera opinione personale, priva di valore probatorio tale da superare le risultanze elettroniche e le attestazioni dei verbalizzanti, munite di fede privilegiata con riferimento alle verifiche e all’apparente funzionamento dell’apparecchio e al puntamento del veicolo.

La ristrutturazione blocca gli studi di settore

Con sentenza del 17/05/2010, n. 203, la Commissione tributaria provinciale Milano, ha respinto la contestazione di gestione diseconomica (differenza tra dichiarato e risultanze da studi di settore) e ha accolto il ricorso di un contribuente che aveva dichiarato un reddito nettamente inferiore rispetto a quello presuntivo ottenibile con gli studi di settore, motivando tale decisione con l’osservazione che I lavori di ristrutturazione dei locali in cui si svolge l’attività commerciale impediscono la normale gestione dell’azienda e costituiscono una circostanza di cui non si può non tenere conto nel valutare se è motivato o meno lo scostamento tra i risultati dichiarati dal contribuente e le risultanze dello studio di settore.
Lo scostamento delle risultanze dello studio di settore risulta essere stato, a giudizio del Collegio, più che motivato, non integrando così lo stesso l'ipotesi di gestione diseconomica (fondamento dell'accertamento con il metodo dello studio di settore).
Principio sotteso a tale conclusione era già stato fissato dalla Cassazione più volte in passato, la quale ha sostenuto che il fisco deve innanzitutto verificare se la condotta del contribuente sia effettivamente irrazionale.
Nell’ipotesi in esame non si può parlare di risultati abnormi o contrari al senso comune: il contribuente, infatti, ha tenuto un comportamento più che razionale, credibile e non producente risultati contrari al senso comune, in quanto affrontare un periodo di minor ricavi per migliorare, ristrutturare e adeguare i locali della propria azienda non dovrebbe potersi ritenere irrazionale, soprattutto quando porti ad un incremento di ricavi successivi.

venerdì 21 maggio 2010

Il preavviso di fermo amministrativo (“ganasce”) è sempre impugnabile!

Il preavviso di fermo amministrativo è impugnabile, in quanto il destinatario del preavviso ha un interesse specifico e diretto al controllo della legittimità sostanziale della pretesa che è alla base del provvedimento cautelare. E' questo il principio di diritto disposto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11087 del 7 maggio scorso.
Secondo la massima Corte, l’atto impugnato contiene, oltre all’invito al pagamento da effettuarsi entro venti giorni dalla notifica, la comunicazione ultima che decorso inutilmente il termine per pagare si provvedere alla iscrizione del fermo presso il Pubblico Registro Automobilistico senza ulteriore comunicazione. Quindi, l’atto impugnato vale come comunicazione ultima della iscrizione del fermo entro i successivi venti giorni (salvo pagamento).
Inoltre, il disposto dell'art. 86, comma 2, del D.P.R. n. 602/1973, secondo cui il concessionario deve dare comunicazione del provvedimento di fermo al soggetto nei cui confronti si procede, decorsi sessanta giorni dalla notificazione della cartella esattoriale, è stato superato dalla prassi di invitare ulteriormente l’obbligato ad effettuare il pagamento, comunicando contestualmente che alla scadenza dell’ulteriore termine si procede all’iscrizione del fermo.
Sulla diretta impugnabilità del preavviso del fermo, i Supremi Giudici sostengono che il preavviso di fermo amministrativo, che riguardi una pretesa creditoria dell’ente pubblico di natura tributaria è impugnabile innanzi al giudice tributario, in quanto atto funzionale a portare a conoscenza del contribuente una determinata pretesa tributaria, rispetto alla quale sorge l’interesse del contribuente alla tutela giurisdizionale per il controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva, a nulla rilevando che tale preavviso non compaia esplicitamente nell’elenco degli atti impugnabili contenuto nell'art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, in quanto tale elencazione va interpretata in senso estensivo, nel rispetto delle norme costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento della P.A.

Effetti della sentenza penale ed eccezionale valenza della testimonianza nel processo tributario

Con sentenza del 14 maggio 2010, n. 11785, la Cassazione interviene su due argomenti di estrema importanza nell’ambito del processo tributario (che si instaura in caso di contenzioso tra l’Erario e il contribuente), individuando un’eccezionale valenza della testimonianza e chiarendo la portata della sentenza penale emessa per i reati tributari.
Secondo i Supremi Giudici il divieto di ammissione della prova testimoniale nel giudizio dinanzi le Commissioni Tributarie, come sancito dal disposto normativo di cui all'art. 7, comma quarto, D.Lgs. n. 546 del 1992, si riferisce alla prova testimoniale da assumere nel processo e non implica, per tale ragione, l'inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall'Amministrazione nella fase procedimentale, rese da soggetti terzi rispetto al rapporto tra contribuente ed Erario. In ipotesi siffatte, le menzionate informazioni testimoniali assumono, tuttavia, il valore probatorio degli elementi indiziari, i quali devono essere, in quanto tali, necessariamente supportati da riscontri dal carattere oggettivo. (Fattispecie relativa ad intervenuta corretta valutazione da parte della C.T.R. di deposizioni testimoniali ed indagini peritali svoltesi nel processo penale).
Il giudicato penale e la sua efficacia vincolante non operano automaticamente nel processo tributario, stante da un lato la vigenza in tale procedimento di limitazioni della prova, dall'altro la valenza di presunzioni idonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ciò rilevato, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi, nel separato giudizio tributario, alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l'Amministrazione finanziaria ha promosso l'accertamento nei confronti del contribuente. Il Giudice Tributario, non può, pertanto, limitarsi a rilevare la esistenza di una pronuncia definitiva in materia di reati tributari, automaticamente estendendone gli effetti all'azione accertatrice del singolo ufficio tributario, poiché è tenuto, nell'esercizio dei propri poteri autonomi di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti, a verificarne la rilevanza nell'ambito in cui esso è destinato ad operare (poteri che, in quanto nella specie correttamente esercitati, determinano l'infondatezza del ricorso proposto avverso la decisione della C.T.R., nella parte in cui attribuiva carattere decisivo e determinante alle risultanze del processo penale).

L’I.C.I. gode del privilegio generale sui mobili ai sensi dell’art. 2752 codice civile

Con l’importante sentenza del 17 maggio 2010, n. 11930, le Sezioni Unite della Cassazione sciolgono definitivamente il nodo fonte di contrasti dottrinali e giurisprudenziali riguardante la sussistenza o meno del privilegio ex art. 2752 codice civile a favore dell’I.C.I..
Secondo gli Ermellini, infatti, le norme del codice civile che stabiliscono i privilegi (ovvero la preferenza rispetto agli altri crediti, tale per cui il loro adempimento deve essere “privilegiato”) in favore di determinati crediti possono essere oggetto di interpretazione estensiva, la quale costituisce il risultato di una operazione logica diretta ad individuare il reale significato e la portata effettiva della norma, che permette di determinare il suo esatto ambito di operatività, anche oltre il limite apparentemente segnato dalla sua formulazione testuale, e di identificare l’effettivo valore semantico della disposizione, tenendo conto dell’intenzione del legislatore e, soprattutto, della causa del credito che, ai sensi dell’art. 2745 c.c., rappresenta la ragione giustificatrice di qualsiasi privilegio. Ne deriva che il privilegio generale sui mobili istituito dall’art. 2752 c.c. sui crediti per le imposte, tasse e tributi dei Comuni previsti dalla legge per la finanza locale, deve essere riconosciuto anche per i crediti dei Comuni relativi all’imposta comunale sugli immobili (ICI) introdotta dal D.Lgs. n. 504 del 1992, pur se successiva, e quindi non compresa, tra i tributi contemplati dal R.D. n. 1175 del 1931.

giovedì 13 maggio 2010

L’assegno divorzile non è quantificabile sulla base dello stipendio medio di un lavoratore dipendente

Con sentenza del 24 Marzo 2010 , n. 7145, la Cassazione ha chiarito che in base all'art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall'art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, l'accertamento del diritto all'assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l'esistenza del diritto in astratto, in relazione all'inadeguatezza dei mezzi o all'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio, e quindi procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l'inadeguatezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della misura dell'assegno. Nella seconda fase, il giudice deve poi procedere alla determinazione in concreto dell'assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5. Al fine della quantificazione dell'assegno di divorzio, il giudice del merito, pur potendosi avvalere di un raffronto con l'assegno pattuito o giudizialmente fissato nel pregresso regime di separazione, non può e non deve utilizzarlo come parametro vincolante, ma deve attribuirlo e liquidarlo in base ai criteri autonomamente fissati dall'art. 5 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, data la diversità delle relative discipline sostanziali, della natura, struttura e finalità dei due trattamenti, correlate e diversificate situazioni, con la conseguenza che l'assetto economico relativo alla separazione può rappresentare mero indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione.
In particolare, la determinazione dell'assegno divorzile va effettuata verificando l'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontata ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. L'accertamento del giudice del merito in ordine alle condizioni economiche dei coniugi ed al reddito di entrambi deve essere compiuto, non in astratto, bensì in concreto; pertanto, detto giudice non può basare la propria decisione su un mero apprezzamento probabilistico, non fondato su dati realmente esistenti con riferimento alla specifica fattispecie.
Nella specie la concreta liquidazione dell'assegno e segnatamente la sensibile riduzione dell'importo stabilito in primo grado, risulta illegittimamente disposta dai giudici di merito senza la ponderata e bilaterale considerazione dei criteri di legge, nonché e con riguardo alle condizioni economiche dell'onerato, pur ritenute ottime per il sopravvenuto notevole incremento del suo patrimonio, valorizzando, in prospettiva del tutto astratta ed anche inappagante sul piano della congruenza logica, l'evoluzione negativa della potenzialità produttiva del suo gruppo societario, nonché ancora, in riferimento alle esigenze della beneficiaria, con erroneo riferimento limitativo ad un modello di vita proprio di un qualsiasi lavoratore dipendente, in luogo del pregresso tenore di vita coniugale che, invece, avrebbe dovuto costituire il tetto massimo della misura della contribuzione.

Incidenti stradali: il danno derivante dalla ridotta capacità lavorativa va risarcito a titolo di lucro cessante

Con sentenza del 30 marzo 2010, n. 7631, la Cassazione ha stabilito che il diniego, da parte dei giudici d’appello, di riconoscere al ricorrente il risarcimento, a titolo di lucro cessante, del danno derivante dalla differenza tra il reddito percepito dal lavoratore dipendente ed i minori redditi da lavoro autonomo dal medesimo percepiti nei tre anni successivi, deve ritenersi assolutamente illegittimo.
Esso si pone, in particolare, in contrasto con la norma dell’art. 4 della legge n. 39 del 1977 e con i criteri di liquidazione in essa stabiliti.
Come è noto, tali criteri sono applicabili, in tema di risarcimento danni alla persona derivanti dalla circolazione stradale, nei soli casi in cui il danneggiato sia percettore di reddito di lavoro (Cass. n. 10269/94) e sempre che dal sinistro sia derivata una invalidità permanente che abbia cagionato un danno correlato al mancato guadagno futuro conseguente ad una riduzione della capacità lavorativa.
In tali casi “le dichiarazioni dei redditi hanno efficacia probatoria privilegiata, ai sensi dell’art. 4 l. 26.2.1977 n. 39, soltanto quando ricorrano due condizioni: oggetto del giudizio sia l’azione diretta promossa dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore della r.c.a. del responsabile, ex art. 18 l. n. 990 del 1969; che il danno che si intende provare con la dichiarazione dei redditi sia costituito da una contrazione del reddito conseguente ad invalidità permanente” (Cass. n. 11007/2003).
A prescindere dalla circostanza che in tema di liquidazione del danno patrimoniale futuro derivante dalla diminuita capacità “l’art. 4 d.l. n. 587 del 1976... non richiede che il reddito desumibile dal modello 740 debba essere altrimenti avvalorato...” (Cass. n. 6941/1996), va tenuto conto, in particolare, del ruolo specifico e determinante che assumono in subiecta materia le dichiarazioni fiscali, per cui risulta assolutamente arbitrario il rilievo secondo cui “le dichiarazioni fiscali non provano che il lavoratore non possa raggiungere un guadagno più elevato di quello dichiarato”.

martedì 11 maggio 2010

La competenza del giudice tributario si estende anche ai debiti iscritti a ruolo aventi natura non tributaria

Con Ordinanza 16 - 30 marzo 2010, n. 7612, le Sezioni Unite della Cassazione sciolgono un nodo di estrema importanza chiarendo al contribuente quale giudice può adire per i debiti iscritti a ruolo e aventi natura non solo tributaria.
Secondo gli Ermellini, infatti, poiché a norma dell’art. 2 del d.lgs. 31/12/92 n. 546, tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati appartengono alla giurisdizione tributaria, anche la controversia attinente alla rateizzazione del debito tributario spetta a detta giurisdizione, avendo ad oggetto per l’appunto un debito tributario, a nulla rilevando che la decisione spettante all’Agenzia delle Entrate debba essere assunta in base a considerazioni estranee alla materia tributaria, essendo la giurisdizione attribuita in ragione esclusiva dell’oggetto della controversia. Inoltre, appare priva di rilievo la circostanza che, potendo la rateizzazione riguardare debiti di diversa natura, il debitore debba adire giudici diversi in relazione alla diversa natura dei debiti stessi, essendo, questo un inconveniente di fatto comune all’intera materia della riscossione mediante ruoli.

Fisco: se manca l'allegato l'iscrizione ipotecaria è nulla!

Si rafforza la tutela del contribuente, che incassa una nuova favorevole sentenza, stavolta ad opera della Commissione Tributaria provinciale di Parma.
Il Giudice Tributario, infatti, con sentenza del 10/02/2010, n. 16, ha dato ragione al contribuente che aveva eccepito la mancata notifica dell’iscrizione ipotecaria, giustificando la sua decisione con la considerazione che al caso in esame è applicabile l'obbligo della motivazione ex art. 7, legge n. 212/2000 (statuto dei diritti del contribuente). Da ciò ne deriva che la comunicazione di iscrizione ipotecaria, che per definizione fa riferimento ad un altro atto, deve essere corredata da quest'ultimo, sì da doversi concludere per l'illegittimità dell'atto impugnato anche nel caso in cui non sia stata allegata l'iscrizione di ipoteca rilasciata dall'Ufficio del Territorio.
Inoltre, l'atto non risulta motivato nemmeno "per relationem" alle cartelle da cui trae origine posto che non risulta allegato alcun prospetto.
La logica e inevitabile conclusione di quanto sopra detto, è la nullità dell’ipoteca!

giovedì 6 maggio 2010

Condomino in conflitto d’interessi: è computato nei quorum costitutivi e deliberativi dell’assemblea?

Con sentenza del 30 gennaio 2002, n. 1201, la Cassazione ha affrontato il problema di diritto se, nel condominio di edifici, nel caso di conflitto di interessi tra il condominio e taluni partecipanti, le maggioranze costituenti il quorum deliberativo debbano essere calcolate con riferimento a tutti i condomini ed al valore dell’intero edificio; ovvero soltanto ai condomini ed ai millesimi facenti capo ai singoli partecipanti, i quali non versano in conflitto di interessi relativamente alla delibera. Ovverosia, se dal numero dei condomini e dal valore dell’intero edificio (1.000 millesimi) debba essere detratta la quota, personale e reale, rappresentata dai condomini in conflitto di interessi per ciò che concerne la proposta messa ai voti.
In tema di condominio negli edifici, l’ipotesi del potenziale conflitto di interessi tra il condominio ed i singoli partecipanti non è regolata. Per disciplinarla, dalla giurisprudenza si richiama per analogia il disposto dell’art. 2373 c.c. dettato in tema di società di capitali, che stabilisce e l’obbligo di astensione del socio, il quale si trova in posizione di conflitto (comma 1), e l’impugnabilità della delibera “se, senza il voto dei soci che avrebbero dovuto astenersi alla votazione, non si sarebbe raggiunta la necessaria maggioranza” (comma 2). Il comma ultimo dello stesso articolo introduce la distinzione tra il quorum costitutivo e il quorum deliberativo, prescrivendo che le azioni, per le quali non può essere esercitato il diritto di voto, sono tuttavia computate ai fini della regolare costituzione della assemblea.
Nel condominio, invece, non esiste un fine gestorio autonomo: la gestione delle cose, degli impianti e dei servizi comuni non mira a conseguire uno scopo proprio del gruppo e diverso da quello dei singoli partecipanti così come nelle società. La gestione delle cose, degli impianti e dei servizi comuni è strumentale alla loro utilizzazione e godimento individuali e, principalmente, al godimento individuale dei piani o delle porzioni di piano in proprietà solitaria.
Tutto ciò si riflette, anzitutto, sul conflitto di interessi, posto che per il sorgere del conflitto tra il condominio ed il singolo condomino è necessario che questi sia portatore, allo stesso tempo, di un duplice interesse: uno come condomino ed uno come estraneo al condominio (e, che l’interesse sia estraneo al godimento delle parti comuni ed a quello delle unità abitative site nell’edificio) e che i due interessi non possano soddisfarsi contemporaneamente, ma che il soddisfacimento dell’uno comporti il sacrificio dell’altro.
Orbene – avuto riguardo alla configurazione tipica dell’istituto, preordinata a tutela dei diritti soggettivi dei singoli partecipanti sulle parti comuni e in considerazione della preminente importanza delle unità immobiliari in proprietà solitaria, rispetto al godimento delle quali la gestione delle parti comuni ha carattere strumentale – le maggioranze occorrenti per la validità delle delibere in tema di gestione in nessun caso possono modificarsi in meno, neppure per contratto. Ciò si ricava con certezza dalla disposizione dettata dall’art. 1138 comma 4 c.c., secondo cui il regolamento contrattuale di condominio in nessun caso può derogare alle norme ivi richiamate, comprese quelle stabilite dall’art. 1136 c.c. concernenti la costituzione dell’assemblea e la validità delle delibere (Cass., sez. II, 9 novembre 1998, n. 11268).
Premesso, per la verità, che se l’assemblea non può deliberare soccorre la disposizione contenuta nell’art. 1105 comma 4 c.c. – applicabile al condominio in virtù del rinvio fissato dall’art. 1139 c.c. – secondo cui, quando non si formano le maggioranze, ciascun partecipante può ricorrere all’autorità giudiziaria, in tema di condominio di edifici – tenuto conto che, in caso di conflitto di interessi, al condomino sia vietato esercitare il diritto di voto – non si contempla nessuna ipotesi nelle quali, ai fini dei quorum costitutivo e deliberativo, non si debba tener conto di tutti i partecipanti e di tutte le quote e nelle quali le maggioranze possano modificarsi in meno.
La conclusione è che, in ogni caso, nel condominio negli edifici le maggioranze necessarie per approvare le delibere devono ritenersi quelle richieste dalla legge in rapporto a tutti i partecipanti ed al valore dell’intero edificio.

Il possesso non è provato con la dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà

Con sentenza del 28/04/2010, n. 10191, la Cassazione ha stabilito che la sola allegazione in giudizio dell’atto di notorietà (documento necessario ogni qualvolta un soggetto debba dichiarare stati, qualità personali e fatti che non possono essere oggetto di autocertificazione) non è sufficiente a provare il possesso.
Secondo gli Ermellini, infatti, essendo l'azione di reintegra diretta a tutelare il possesso inteso come relazione di fatto con la cosa, corrispondente all'esercizio di un diritto reale, è sempre necessario, agli effetti della tutela possessoria, la dimostrazione dell'esercizio di fatto del possesso, non potendo l'esistenza e l'estensione di questo essere desunta dal regime legale o convenzionale del diritto reale corrispondente.
Così, al fine della configurabilità dello spoglio, il quale costituisce un atto illecito che lede il diritto del possessore alla conservazione della disponibilità della cosa, obbligando chi lo commette al risarcimento del danno, con l'atto materiale deve coesistere il dolo o la colpa, la cui prova incombe su chi propone la domanda di reintegrazione, mentre rappresenta apprezzamento di fatto - riservato al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione logica e sufficiente - l'accertamento dell'esistenza dell'indicato elemento soggettivo, ed il possessore non deve provare anche la consapevolezza dell'autore della lesione di aver violato l'altrui diritto (v. Cass. n. 1274 del 1999 e Cass. n. 15381 del 2000).
Infatti (come ha statuito la stessa S.C. con la sentenza n. 26937 del 2006), l'art. 2 del d.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa) chiarisce che le dichiarazioni sostitutive di certificazioni relative a stati, qualità personali e fatti, esulano dall'ambito della prova civile, riguardando "la produzione di atti e documenti agli organi della P.A. nonché ai gestori di pubblici servizi nei rapporti tra loro e in quelli con l'utenza, e ai privati che vi consentono".
Conseguentemente, al pari della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà prevista dall'art. 4 della legge n. 15 del 1968 (v. Cass. n. 7299 del 2004), a tali dichiarazioni sostitutive deve escludersi qualsiasi rilevanza, sia pure indiziaria, nel processo civile, qualora costituiscano l'unico elemento esibito in giudizio al fine di provare un elemento costitutivo dell'azione o dell'eccezione, atteso che la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore, ai fini del soddisfacimento dell'onere di cui all'art. 2697 c.c., da proprie dichiarazioni non asseverate da terzi.

mercoledì 5 maggio 2010

Studi di settore: la rettifica del reddito non è necessaria in caso di scostamento minimo

Con sentenza n. 71 del 7/04/2010 la Commissione Tributaria provinciale BARI ha sostenuto che non può essere giustificata la rettifica del reddito di un contribuente attraverso uno scostamento minimo tra ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore.
Secondo la Commissione Tributaria di Bari, infatti, il ricorso del contribuente è fondato e va accolto in quanto egli ha evidenziato che non può ritenersi grave l’incongruenza riscontrata dalle Entrate fra i ricavi dichiarati, pari ad euro 91.168,00, e quelli accertati mediante l’applicazione dei parametri dello studio di settore, di euro 96.613,00, con una percentuale di scostamento molto bassa, pari a circa il 5,7%, seppur non compresa nell’intervallo di confidenza. Inoltre il contribuente ha evidenziato che parte dei ricavi dichiarati (pari ad euro 56.576,00) erano stati effettuati con vendite in saldo per metà dell’anno e che nell’accertamento era stato indicato un errato valore dei beni strumentali .
Per la Commissione l’avviso di accertamento emesso successivamente al rilevato scostamento è illegittimo in quanto ricalcolando lo studio con i ricavi dichiarati dal contribuente e tenuto conto di quanto affermato dallo stesso e non contestato dall’Agenzia delle Entrate nelle controdeduzioni, si ha uno scostamento minimo rilevato tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dallo studio di settore che non rappresentano una incongruenza così grave da legittimare, così come previsto dal contenuto dell’articolo 62-sexies del D.L. 331/1993, la rettifica del reddito dichiarato.
Con riferimento all’antiecoeconomicità dell’attività svolta dal contribuente ricorrente, ed eccepita dall’agente accertatore, essa appare secondo i giudici di merito un argomento metagiuridico che non considera altri fattori (anche di carattere psicologico) che possano giustificare l’esercizio di attività professionali non particolarmente remunerative e non può costituire il fondamento dell’attività accertativa dell’Agenzia delle Entrate, imperniata sugli studi di settore.