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venerdì 26 febbraio 2010

I requisiti che deve avere una tettoia per non richiedere il permesso di costruire

Come detto anche in precedenti “post”, una delle problematiche più dibattute riguarda le condizioni in presenza delle quali sia necessario o meno il permesso di costruire.
Nell’ambito di questo dibattito, per il quale si rimanda ai precedenti articoli, si segnala la sentenza del 2 dicembre 2009, n. 8320 del T.A.R. Campania la quale ricorda che, per giurisprudenza costante (fra le più recenti: TAR Campania Napoli, sez. II, n. 3870 del 13 luglio 2009, n. 492 del 29 gennaio 2009; TAR Campania Napoli, Sez. IV, n. 19754 del 18 novembre 2008; T.A.R. Campania Napoli, sez. III, n. 10059 del 9 settembre 2008), gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di semplice decoro o arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) della parte dell’immobile cui accedono.
Tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite, quando quindi per la loro consistenza dimensionale non possono più ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della accessorietà, nell'edificio principale o nella parte dello stesso cui accedono (in termini TAR Campania Napoli, sez. II, n. 3870 del 13 luglio 2009 cit., T.A.R. Campania Napoli, Sez. IV, n. 19754 del 18 novembre 2008 cit., Consiglio di Stato, Sez. V, 13 marzo 2001 n. 1442).
Utilizzando gli stessi criteri anche la realizzazione di una tettoia (di non irrilevante consistenza dimensionale) ancorata al suolo costituisce opera idonea ad alterare lo stato dei luoghi e a trasformare il territorio permanentemente e perciò richiede il rilascio di un permesso di costruire (T.A.R. Piemonte Torino, sez. I, 16 marzo 2009, n. 752).
Del resto, è noto che la nozione di costruzione, ai fini del rilascio del permesso di costruire, si configura in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante realizzazione di opere murarie, essendo irrilevante che le opere siano state realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno o altro materiale, ove si sia in presenza di un'evidente trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio e le opere siano preordinate a soddisfare esigenze non precarie sotto il profilo funzionale (T.A.R. Campania Napoli, sez. II, 26 settembre 2008, n. 11309; Consiglio Stato, Sez. IV, n. 2705 del 2008).
In altri termini, rilevano non soltanto gli elementi strutturali (composizione dei materiali, smontabilità o meno del manufatto) ma anche i profili funzionali dell’opera (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. I quater, n. 11679 del 23 novembre 2007).

E’ risarcibile l'ingiustificato ritardo con cui viene concesso il pensionamento

Il ritardato e ingiustificato pensionamento conseguente, ad esempio, alla domanda di riscatto delle annualità pregresse e alla domanda di ricongiunzione dell'intero periodo assicurativo, è risarcibile.
Con sentenza del 10 febbraio 2010, n. 3023, infatti, i Supremi Giudici della Cassazione hanno sostenuto che il diniego, riconosciuto in sede giudiziale non giustificato, frapposto dalla Cassa alla legittima richiesta dell'assicurato, costituisce una forma di imperizia, e quindi di colpa, generatrice di responsabilità sotto il profilo civilistico.
Da rilevare, inoltre, che l'esigenza di congruo lasso temporale per l'espletamento delle richieste non rileva ai fini della quantificazione del danno, versandosi in tema di liquidazione equitativa nella quale la Corte territoriale ha tenuto conto - in una valutazione globale - di una serie di parametri, fra cui il mancato pensionamento protrattosi per anni.

giovedì 25 febbraio 2010

La convivenza con un altro uomo non fa venire meno l’obbligo di mantenere l’ex moglie

La giurisprudenza pressoché costante della Cassazione sostiene che la convivenza more uxorio dell’ex moglie non fa venir meno l’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento a carico dell’ex marito, salvo che tale relazione abbia determinato un miglioramento delle condizioni economiche, dimostrabile con qualunque prova, anche per presunzione, come il reddito o lo stile di vita del nuovo compagno.
Con sentenza n. 1096/2010, la Cassazione ha ulteriormente ribadito che in pendenza del giudizio di divorzio, un nuovo figlio dell’ex moglie con il proprio partner o la convivenza more uxorio, di per sé, non sospendono la corresponsione dell’assegno, né consentono la sua diminuzione. Tali eventi, infatti, sono rilevanti solo successivamente e in sede di revisione degli accordi di divorzio. Anche in questa fase, pur tuttavia, si deve rilevare che un nuovo rapporto di convivenza more-uxorio ha caratteristiche di precarietà e quindi i relativi benefici economici che ne possono derivare sono idonei solo a determinare una riduzione dell'assegno posto che l'art. 5 della legge sul divorzio ha inteso tutelare le condizioni minime di autonomia giuridicamente garantite fino a che l'avente diritto non contrae nuove nozze.
Ciò in perfetta armonia con precedenti pronunce con le quali si era affermato che in assenza di un nuovo matrimonio, il diritto all'assegno di divorzio, in linea di principio, di per sè permane anche se il richiedente abbia instaurato una convivenza "more uxorio" con altra persona, salvo che sia data la prova, da parte dell'ex coniuge, che tale convivenza ha determinato un mutamento "in melius" - pur se non assistito da garanzie giuridiche di stabilità, ma di fatto adeguatamente consolidatosi e protraentesi nel tempo - delle condizioni economiche dell'avente diritto, a seguito di un contributo al suo mantenimento ad opera del convivente o, quanto meno, di risparmi di spesa derivatigli dalla convivenza, onde la relativa prova non può essere limitata a quella della mera instaurazione e della permanenza di una convivenza siffatta, risultando detta convivenza di per sè neutra ai fini del miglioramento delle condizioni economiche dell'istante e dovendo l'incidenza economica della medesima essere valutata in relazione al complesso delle circostanze che la caratterizzano, laddove una simile dimostrazione del mutamento "in melius" delle condizioni economiche dell'avente diritto può essere data con ogni mezzo di prova, anche presuntiva, soprattutto attraverso il riferimento ai redditi e al tenore di vita della persona con la quale il richiedente l'assegno convive, i quali possono far presumere, secondo il prudente apprezzamento del giudice, che dalla convivenza "more uxorio" il richiedente stesso tragga benefici economici idonei a giustificare il diniego o la minor quantificazione dell'assegno, senza che, tuttavia, ai fini indicati, possa soccorrere l'esperimento di indagini a cura della polizia tributaria (Cass. civ. Sez. I, sentenza 20 gennaio 2006, n. 1179).

Telefonia mobile: i servizi addebitati e non richiesti rendono nullo il contratto

Le compagnie di telefonia mobile offrono con sempre maggiore frequenza la stipula di contratti di durata aventi ad oggetto un complesso di servizi e un telefono, cosiddetto di ultima generazione, che consente il loro pieno utilizzo. Spesso, però, tra le pieghe delle clausole contrattuali si possono nascondere condizioni che rendono l’offerta meno appetibile di quanto sembri a prima vista. Una di queste può essere l’uso di applicazioni o servizi a pagamento attivati all’insaputa del consumatore e funzionanti per effetto delle pre-impostazione effettuate dall’operatore sul terminale mobile.
In riferimento all’offerta “Vodafone Facile Large”, il Giudice di Pace di Bari, con sentenza del 30 aprile - 11 maggio 2009, n. 3615, ha innanzitutto ritenuto evidente l’accordo tra la fabbrica produttrice di telefoni e la Vodafone, in virtù del quale i telefonini vengono offerti con l’abbonamento ai servizi della Vodafone. Per effetto di ciò si deve ritenere che l’offerta provenga dalla Vodafone, che ne risponde come venditore, ai sensi del Codice del Consumo, in quanto, in virtù dell’accordo con le case produttrici, è la Vodafone ad acquistare i telefonini per poterli poi offrire unitamente all’abbonamento, nel pacchetto reclamizzato, che non sarebbe possibile porre sul mercato senza un preventivo accordo con il produttore. Poiché di tale accordo la Vodafone non ha ritenuto di chiarire il contenuto, deve presumersi dal tipo e dalle modalità dell’offerta, che vi sia un contratto di vendita condizionato, che preveda la pre-impostazione dei cellulari immessi in tal modo sul mercato.
La Vodafone, quindi, non poteva ignorare che i cellulari offerti erano pre-impostati e che i servizi così attivati non erano quelli indicati nel pacchetto-offerta come “abbonamento”.
Pertanto, la Vodafone non può addebitare al consumatore ignaro un servizio che non è stato oggetto di contrattazione, ed è stato fornito a sua insaputa, avendo il professionista (Vodafone), carpito il consenso del consumatore, con offerta ingannevole, venendo meno all’obbligo di buonafede di cui all’art. 1337 c.c., oltre che quello di correttezza di cui al Codice del Consumo.
Deve ritenersi che nella fattispecie si configuri una frode contrattuale e che il contratto sia nullo, avendo causa illecita in quanto predisposto per eludere la disciplina a tutela del consumatore, attraverso la pre-impostazione, di servizi non richiesti dal consumatore e di cui questi ignori l’attivazione, ritenendo erroneamente la Vodafone di non essere né fabbricante né venditore del bene che non è conforme al contratto e quindi non responsabile della sua pre-impostazione.
Infatti, la Vodafone ha venduto il telefonino in uno con l’abbonamento e solo con i servizi espressamente proposti al prezzo pubblicizzato, inserendovi, arbitrariamente, prestazioni non richieste e di cui non viene indicato il costo, determinando la sussistenza di un gravissimo squilibrio contrattuale sostanziale, per eludere l’applicabilità dell’art. 33 (L.M.N.O. Cod. Cons.), nonché l’applicazione degli art. 50 e 52 H del codice del consumo, nonché la norma imperativa di cui all’art. 2 (punti c ed e) sulla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali. E’ pertanto, evidente, la illiceità della causa che rende nullo il contratto e che va rilevata d’ufficio.

martedì 23 febbraio 2010

L’amministrazione Tributaria ha l’obbligo di trasmettere il ricorso del contribuente all’ufficio competente

A causa della confusa legislazione, non è difficile che chi voglia impugnare un provvedimento dell’amministrazione tributaria presenti un ricorso contro un ufficio non competente. Qualora si dovesse verificare tale evenienza, non tutto è perduto e la Cassazione spiega anche il motivo.
Infatti, con sentenza n. 2937 del 10 febbraio 2010, i Supremi Giudici della Sez. V della Cassazione hanno chiarito che la sussistenza di una disciplina processuale controvertibile in ordine alla fondatezza o meno della qualità di parte in capo al Centro di Servizio, determinante, a seconda delle ipotesi, la necessarietà o meno della notifica del gravame anche ad esso, deve trovare soluzione nel principio di affidamento del contribuente, come sancito dall’art. 10, L. n. 212 del 2000. Stante, invero, l'idoneità della disciplina di cui all’art. 10, D.Lgs. n. 546 del 1992 ed all’art. 10 D.P.R. n. 787 del 1980 - nella parte in cui disciplinano rispettivamente la nozione di parte e la proposizione dei ricorsi - a trarre in inganno il contribuente appellante, la sussistenza del menzionato principio, secondo il quale i rapporti tra il contribuente e l’Amministrazione Finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede, determina nell’Amministrazione Tributaria il dovere di assumere nei confronti del contribuente una condotta collaborativa nel caso di errore in ordine alla corretta individuazione dell’Ufficio, contrariamente a quanto verificatosi nella fattispecie in esame. Ricevuto il ricorso in appello il Centro di Servizio, in ottemperanza al dovere di collaborazione, era, pertanto, tenuto a trasmetterlo al competente Ufficio delle Entrate anziché mantenere una condotta inerte, come di fatto verificatosi. Ciò rilevato, la mancata tempestiva costituzione in giudizio dell’Ufficio competente deve imputarsi non già al contribuente, bensì all’amministrazione stessa per violazione del citato principio, al che consegue la sufficienza e la idoneità della notifica del gravame al solo Centro Servizi al fine della corretta instaurazione del rapporto processuale in appello.

Accertamenti fiscali: sono utilizzabili gli atti raccolti in modo irrituale

Con sentenza n. 3388 del 12 febbraio 2010, la Sez. V della Corte di Cassazione ha disposto che in tema di accertamenti e controlli inerenti alle dichiarazioni dei redditi, in applicazione dell’art. 39 del D.P.R. n. 600 del 1973, nessuna inutilizzabilità colpisce gli atti raccolti dagli organi deputati al controllo fiscale, anche se tale raccolta sia avvenuta in maniera irrituale. Nonostante, infatti, l’art. 33 della citata norma richiami, ai fini della determinazione delle modalità di accesso, il disposto dell’art. 52 del D.P.R. n. 633 del 1972 (che, in particolare in materia IVA, prescrive come necessaria l’autorizzazione del capo dell’ufficio dal quale gli accertatori dipendono) non esiste una specifica previsione che, visto il mancato rispetto delle regole dettate in tema appunto di accesso, sancisca la inutilizzabilità degli atti così acquisiti. Detta sanzione, infatti, deve ritenersi comminabile solo nel caso in cui l’accesso sia effettuato, senza autorizzazione del Procuratore della Repubblica, presso il domicilio di persona fisica in quanto risulta leso un diritto costituzionalmente protetto quale quello dell’inviolabilità del domicilio. Conclusivamente devono essere ritenuti utilizzabili tutti i dati comunque acquisiti dagli organi di controllo fatta salva, ovviamente, la verifica circa la loro attendibilità in riferimento alla natura ed al contenuto degli stessi.
Devono essere ricompresi tra le scritture contabili disciplinate dall'art. 2709 c.c. tutti i documenti che, comunque, offrano una rappresentazione tanto della situazione patrimoniale dell'impresa, quanto del risultato economico dell'attività svolta, ivi compresi quelli costituenti la c.d. contabilità in nero ovverosia appunti personali e annotazioni o informazioni varie dell'imprenditore. Detti documenti, quindi, qualora da un esame complessivo risultino dotati dei requisiti previsti dall'art. 39 del D.P.R. n. 600 del 1973, siano cioè gravi, precisi e concordanti, possono assurgere al ruolo di valido elemento indiziario ai fini della ricostruzione, in sede di accertamento, del reale quadro della situazione aziendale.

lunedì 22 febbraio 2010

Auto: se l’acquirente non paga, la finanziaria deve rivolgersi al concessionario

Nell’ipotesi di contratto di mutuo in cui sia previsto lo scopo del reimpiego della somma mutuata per l’acquisto di un determinato bene, come ad esempio un’automobile, si rende applicabile il principio del collegamento tra i contratti; per cui il mutuatario è obbligato all’utilizzazione della somma mutuata per il previsto acquisto.
Questo principio comporta che, della somma concessa in mutuo beneficia il venditore del bene.
Ebbene, in queste ipotesi, la Cassazione civile, con sentenza del 16/02/2010, n. 3589, ritiene che la risoluzione della compravendita del bene, che importa il venir meno dello stesso scopo del contratto di mutuo, legittima il mutuante (la banca o una finanziaria) a richiedere la restituzione della somma mutuata non al mutuatario (l’acquirente del bene), ma direttamente ed esclusivamente al venditore (nell’esempio fatto, il concessionario).
Il collegamento tra più contratti tra loro interdipendenti per il raggiungimento di un fine ulteriore che supera i singoli effetti tipici di ciascun atto collegato, da' luogo ad un unico regolamento di interessi, che assume una propria, diversa rilevanza causale in relazione alla sintesi degli interessi (cd. causa concreta) che lo stesso è concretamente diretto a realizzare.
In relazione ad un assetto negoziale di tale tipo, ravvisato dalla corte d’appello con motivazione del tutto congrua, è irrilevante la questione posta col primo motivo, essendo incontestato che il contratto di compravendita si fosse risolto, sicché il finanziatore avrebbe potuto chiedere la restituzione della somma mutuata solo al venditore.

L’Agenzia delle Entrate spiega come certificare correttamente le spese sanitarie per beneficiare delle detrazioni o delle deduzioni

Con la risoluzione n. 10/E del 17/02/2010, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito come beneficiare della deduzione o della detrazione d’imposta per l’acquisto di medicinali, precisando che è necessario il possesso di un documento fiscale costituito dallo scontrino fiscale o dalla fattura recante l’indicazione della natura, qualità e quantità del prodotto.
In particolare, sullo scontrino deve essere indicato il numero di autorizzazione all'immissione in commercio (AIC), rilevato mediante lettura ottica del codice a barre, di ciascun farmaco.
Basta che il documento di spesa rechi la dizione generica di «farmaco» o di «medicinale». In ogni caso, è possibile fruire dei benefici IRPEF a condizione che i documenti di spesa, pur non riportando tali diciture, indichino comunque la natura del prodotto attraverso sigle, abbreviazioni o terminologie chiaramente riferibili ai farmaci.
Pertanto:
•l’indicazione sullo scontrino della natura del bene acquistato è soddisfatta anche quando sia riportata la dicitura «omeopatico» in luogo delle diciture «farmaco» o di «medicinale»;
•l’indicazione è soddisfatta anche dalla dicitura «ticket» (che può essere riferita soltanto a medicinali erogati dal servizio sanitario) ovvero dalle sigle SOP (senza obbligo di prescrizione) e OTC (medicinali da banco);
•con riguardo alle preparazioni galeniche, per l'indicazione della natura del prodotto venduto può essere riportata la dicitura «farmaco» o «medicinale» e per la qualità dello stesso la dicitura «preparazione galenica»;
•le abbreviazioni «med.» o «f.co.» equivalgono alla menzione per esteso dei termini medicinale e farmaco.
Non è più necessario conservare la prescrizione medica: la natura e la qualità del prodotto acquistato si evincono dalla dicitura «farmaco» o «medicinale» e dalla denominazione dello stesso riportate nei documenti di spesa rilasciati dalle farmacie.
Anche per i ticket, quindi, il contribuente non è più obbligato a conservare la fotocopia della ricetta rilasciata dal medico di base.

venerdì 19 febbraio 2010

Il genitore che non paga il mantenimento non ha diritto all’affido condiviso

A norma dell’art. 155 del codice civile, come novellato dalla L. n. 54/2006, in caso di divorzio i figli minori sono affidati ad entrambi i genitori che ne esercitano congiuntamente la potestà, ma il giudice può disporre l’affidamento esclusivo ad uno solo di essi riguardo all’interesse dei minori. Una delle possibili realtà che nella vita possono pendere corpo, è quella che uno dei genitori non paghi quanto deve a titolo di mantenimento.
Ebbene, in questa circostanza, la Corte di Cassazione, con sentenza del 17 dicembre 2009, n. 26587, ha statuito che nel quadro della nuova disciplina relativa ai provvedimenti riguardo ai figli dei coniugi separati, di cui ai citati artt. 155 e 155 bis c.p.c., come modificativamente e integrativamente riscritti dalla L. n. 54 del 2006, improntata alla tutela del diritto del minore (gia’ consacrato nella Convenzione di New York del 20 novembre 1989 resa esecutiva in Italia con L. n. 176 del 1991) alla c.d. bigenitorialita’ (al diritto, cioe’, dei figli a continuare ad avere un rapporto equilibrato con il padre e con la madre anche dopo la separazione), l’affidamento condiviso (comportante l’esercizio della potesta’ genitoriale da parte di entrambi ed una condivisione, appunto, delle decisioni di maggior importanza attinenti alla sfera personale e patrimoniale del minore) si pone non piu’ (come nel precedente sistema) come evenienza residuale, bensi’ come regola, rispetto alla quale costituisce, invece, ora eccezione la soluzione dell’affidamento esclusivo.
Alla regola dell’affidamento condiviso puo’ infatti derogarsi solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l’interesse del minore. Non avendo, per altro, il legislatore ritenuto di tipizzare le circostanze ostative all’affidamento condiviso, la loro individuazione resta rimessa alla decisione del giudice nel caso concreto da adottarsi con provvedimento motivato, con riferimento alla peculiarita’ della fattispecie che giustifichi, in via di eccezione, l’affidamento esclusivo...”.
Perche’ possa derogarsi alla regola dell’affidamento condiviso, occorre quindi “...che risulti, nei confronti di uno dei genitori, una sua condizione di manifesta carenza o inidoneita’ educativa o comunque tale appunto da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per il minore...” (come nel caso, ad esempio, di un’obiettiva lontananza del genitore dal figlio, o di un suo sostanziale disinteresse per le complessive esigenze di cura, di istruzione e di educazione del minore).
L’obbligo di un genitore di provvedere al mantenimento dei figli implica il dovere di soddisfare primariamente le esigenze dei figli stessi e quindi di anteporre le esigenze di questi alle proprie...”. Di conseguenza, l’eventuale esiguita’ del reddito a disposizione non giustifica la totale inadempienza, protratta per molti anni, da parte del genitore e tale inadempienza “...incide, con riferimento ai figli, non solo sul piano strettamente materiale, impedendo loro la possibilita’ di sfruttare al meglio le proprie potenzialita’ formative, ma incide, ancora di piu’, sotto il profilo morale...” essendo sintomatica della mancanza di qualsiasi impegno da parte del genitore inadempiente diretto a soddisfare le esigenze dei figli “... e quindi della carenza di responsabilizzazione nei loro confronti e di inidoneita’ del detto genitore a contribuire a creare per i propri figli quel clima di serenita’ familiare necessario per una sana ed equilibrata crescita”.

Assicurazione infortuni: la trattativa per il bonario componimento non interrompe la prescrizione

Il tempismo con il quale l’assicurato deve informare la propria compagnia assicurativa di essere stato vittima di un infortunio è di fondamentale importanza, anche per evitare che possa intervenire la prescrizione, “cancellando” il legittimo diritto al risarcimento.
Al riguardo la Cassazione, con sentenza del 27.01.2010, n° 1687, ha riaffermato che il termine iniziale per il decorso della prescrizione è quello del consolidamento dei postumi (coperti dall’assicurazione) e che le trattative per comporre bonariamente la vertenza, non avendo quale precipuo presupposto l'ammissione totale o parziale della pretesa avversaria, e non rappresentando, quindi, riconoscimento del diritto altrui ai sensi dell'articolo 2944 cod. civ., non hanno efficacia interruttiva, né possono importare rinuncia tacita a far valere la prescrizione medesima, perché non costituiscono fatti incompatibili in maniera assoluta (senza, cioè, possibilità alcuna di diversa interpretazione) con la volontà di avvalersi della causa estintiva dell'altrui diritto, come richiesto dall'articolo 2937, terzo comma, cod. civ., a meno che dal comportamento di una delle parti non risulti il riconoscimento del contrapposto diritto di credito, e si accerti che la transazione è mancata solo per questioni attinenti alla liquidazione del credito e non anche all'esistenza di tale diritto (tra le più recenti, cfr. Cass. 8 marzo 2007, n. 5327).

mercoledì 17 febbraio 2010

Licenziamento senza causa: il risarcimento è limitato al tempo ragionevole per presentare ricorso

In caso di licenziamento senza causa, l’art. 18, l. n. 300/1970, statuto dei lavoratori, dispone che il giudice deve condannare il datore di lavoro al pagamento di un’indennità pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione. Da ciò ne deriva che maggiore è tale lasso di tempo, maggiore sarà il danno liquidato dal giudice.
Quest’arco temporale, però, non può essere eccessivamente lungo se non in presenza di giustificati motivi da provare in giudizio, in quanto, a detta del Tribunale di Milano che si è pronunciato il 13 novembre 2009 su tale problematica, l'inerzia del lavoratore nell'adire in tempi ragionevoli l'autorità giudiziaria non può e non deve essere fatta gravare esclusivamente sul datore di lavoro ma, al contrario, deve essere valorizzata ex art. 1227 cc, avendo contribuito ad aggravare l'entità del danno. L'entità del risarcimento dei danno a seguito dell'accertamento della illegittimità del licenziamento commisurata dal legislatore alla retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento fino a quello della reintegra, infatti, non può essere portata fino al punto di far gravare sul datore di lavoro conseguenze risarcitorie che, pur trovando la loro causa accidentale nell'illegittimo licenziamento, siano essenzialmente determinate da una condotta quantomeno negligente del danneggiato. Tale principio ha già trovato accoglimento dalla giurisprudenza della Suprema Corte nel casi in cui è stata riconosciuta la possibilità di effettuare la "compensatio lucri cum damno" detraendo I' "aliunde perceptum" dalle retribuzioni dovute al ricorrente da parte del datore di lavoro (cfr in tal senso : Cassazione SSUU. n. 12194 del 13.8.02; Cassazione n. 8494 del 28.5.2003.). In tal caso non ci si trova, evidentemente, di fronte ad un comportamento colpevolmente inerte del lavoratore, ma ciò che rileva è l'affermazione del principio generale secondo cui la misura del danno deve essere determinata evitando che possa esservi una locupletazione del danneggiato, che di certo non può "arricchirsi" oltre quella che è l'effettiva misura del pregiudizio subito.
Orbene, riconoscere al ricorrente il risarcimento per l'intero periodo trascorso tra il licenziamento e la sentenza di reintegrazione comporterebbe una ingiustificata valorizzazione del comportamento colposamente inerte del lavoratore nell'attivare la fase giudiziale.
Cosi facendo, tuttavia, si arriverebbe a riconoscere la legittimità di condotte viceversa chiaramente contrarie ai più elementari canoni di buona fede e correttezza che di certo vigono anche rispetto allo strumento processuale, di cui non si deve abusare per ottenere un illegittimo incremento del danno liquidato.
Da qui la decisione di ritenere che 15 mesi siano sufficiente per il lavoratore e per il suo difensore per adire il giudice al fine di affermare l'illegittimità del licenziamento e che questo deve essere il periodo massimo indennizzabile, cui va aggiunta la durata del processo di certo non imputabile al ricorrente.

Sinistri stradali: le spese legali per l’assistenza stragiudiziale sono a carico di chi danneggia

In caso di incidente stradale chi viene danneggiato spesso si rivolge a un avvocato per avere la necessaria assistenza legale, indipendentemente dall’esercizio di un’azione giudiziaria, sopportando i connessi oneri che rientrando nell’ambito del danno “emergente” devono essere posti a carico di chi ha causato il sinistro.
Come ha più volte sostenuto la Corte di Cassazione, infatti, “In tema di assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, nella speciale procedura per il risarcimento del danno da circolazione stradale, introdotta con L. n. 990 del 1969, e sue successive modificazioni, il danneggiato ha facoltà, in ragione del suo diritto di difesa, costituzionalmente garantito, di farsi assistere da un legale di fiducia e, in ipotesi di composizione bonaria della vertenza, di farsi riconoscere il rimborso delle relative spese legali; se invece la pretesa risarcitoria sfocia in un giudizio nel quale il richiedente sia vittorioso, le spese legali sostenute nella fase precedente all'instaurazione del giudizio divengono una componente de danno da liquidare e, come tali devono essere chieste e liquidate sotto forma di spese vive o spese giudiziali”. (Cass. n. 2775 del 2006).
Si è, altresì, specificato che “Le spese legali corrisposte dal cliente al proprio avvocato in relazione ad attività stragiudiziale seguita da attività giudiziale devono formare oggetto di liquidazione con la nota di cui all'art. 75 disp. att. c.p.c., se trovino adeguato compenso nella tariffa per le prestazioni giudiziali, potendo altrimenti formare oggetto di domanda di risarcimento del danno nei confronti dell'altra parte, purchè siano necessarie e giustificate, condizioni, queste che si desumono dal potere del giudice di escludere dalla ripetizione le spese ritenute eccessive o superflue, applicabile anche agli effetti della liquidazione del danno in questione”. (Cass. n. 14594 del 2005).
Il concetto di necessità e giustificatezza è evocato anche da altra decisione: si veda. Cass. n. 9400 del 1999.
La legittimità di un simile incarico è indiscutibile perchè la prestazione di assistenza legale stragiudiziale trova nell'ordinamento riconoscimento nella stessa tariffa professionale forense.

martedì 16 febbraio 2010

Il medico che non informa il paziente risarcisce il danno anche se l’intervento è riuscito

Il medico che presta la propria opera stipula con il paziente che ha in cura un contratto in virtù del quale effettua la diagnosi ed assume l’obbligo d’illustrare al paziente le conseguenze (certe o incerte che siano, purché non del tutto anomale) della terapia o dell’intervento che egli considera necessari o opportuni ai fini di ottenere, quante volte sia possibile, il necessario consenso del paziente all’esecuzione della prestazione terapeutica.
Con sentenza n. 2847 del 9/02/2010, i giudici della Cassazione hanno rilevato che l’adempimento di tale obbligazione, avendo una fonte contrattuale, in sede giudiziaria dovrà essere dimostrato dallo stesso medico che, in caso contrario, sarà obbligato a risarcire il danno, nella prevalenza dei casi non patrimoniale, costituito dal mancato rispetto dell’obbligo di informare il paziente. Ciò in conseguenza del fatto che anche una sola violazione del diritto all’autodeterminazione, pur senza correlativa lesione del diritto alla salute ricollegabile a quella violazione per essere stato l’intervento terapeutico necessario e correttamente eseguito, comporta comunque una illegittima lesione di un interesse giuridicamente tutelato cui consegue il diritto al risarcimento.
Pur tuttavia, la risarcibilità del danno da lesione della salute che si verifichi per le non imprevedibili conseguenze dell’atto terapeutico necessario e correttamente eseguito a regola d'arte medica, ma comunque effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, necessariamente presuppone l'accertamento che il paziente quel determinato intervento avrebbe rifiutato se fosse stato adeguatamente informato.
La violazione di un diritto fondamentale della persona, infatti, qual è quello all’autodeterminazione in ordine alla tutela terapeutica della propria salute, comporta la risarcibilità di ogni tipo di pregiudizio non patrimoniale che ne sia causalmente derivato.

lunedì 15 febbraio 2010

Le condizioni per poter usare i fendinebbia senza incorrere in sanzioni amministrative

A norma dell’art. 153 del codice della strada, da mezz’ora dopo il tramonto del sole a mezz’ora prima del suo sorgere e anche di giorno nelle gallerie, in caso di nebbia, caduta di neve, di forte pioggia e in ogni altro caso di scarsa visibilità […] i veicoli a motore devono tenere accesi le luci di posizione, le luci della targa, se prescritte le luci d’ingombro, e i proiettori anabbaglianti. Di giorno, in caso di nebbia, fumo, foschia, nevicata in atto, pioggia intensa, i proiettori anabbaglianti e quelli di profondità possono essere sostituiti da proiettori fendinebbia anteriori.
Tale disposizione, però, non prende in considerazione l’ipotesi d’uso contestuale di fendinebbia e fari anabbaglianti nelle ore notturne, per la quale la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi successivamente alla contestazione di una multa elevata a un’automobilista.
Con sentenza n. 534, del 15/01/2010, i Supremi Giudici hanno statuito che la norma suindicata si riferisce esclusivamente al caso in cui l’uso del fendinebbia avvenga di giorno e la formulazione della disposizione facoltizza il conducente, nelle indicazioni ivi previste, a sostituire i proiettori anabbaglianti o quelli di profondità con i fari fendinebbia. Nulla autorizza invece a ritenere che la prescrizione di uso alternativo delle due tipologie di strumenti luminosi operi anche di notte.
Alla guida nel periodo indicato dall’art. 153, nonché nelle condizioni di scarsa visibilità in essa puntualmente specificate – tra le quali vi è la nebbia – la norma non contiene alcuna esclusione di uso dei fari antinebbia, né una prescrizione di uso alternativo tra detti fari e i proiettori anabbaglianti e quelli di profondità che, dunque, possono essere usati contestualmente.

Sanzioni amministrative: come rimediare se il ricorso è inoltrato contro un organo incompetente

In caso di sanzioni amministrative non è sempre chiaro contro chi bisogna agire in giudizio per contestare la sua presunta illegittimità.
Con sentenza n. 3117 del 2006, le Sezioni Unite della Cassazione hanno disposto che in tema di opposizione a sanzione amministrativa, al di fuori delle ipotesi in cui la legge prevede la specifica competenza di un organo periferico dell’Amministrazione, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 11 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, l’errata identificazione dell’organo legittimato a resistere in giudizio non si traduce nella mancata instaurazione del rapporto processuale, ma costituisce una mera irregolarità sanabile, ai sensi dell’art. 4 della L. 25 marzo 1958, n. 260, attraverso la rinnovazione dell’atto nei confronti dell’organo indicato dal giudice, ovvero mediante la costituzione in giudizio dell’Amministrazione, che non abbia sollevato eccezioni al riguardo, o ancora attraverso la mancata deduzione di uno specifico motivo d’impugnazione.

Illegittimo il divieto d’insediamento ai piani terreni di attività paracommerciali

E’ illegittimità la norma tecnica di un piano regolatore generale, introdotta con una variante di adeguamento ex art. 6 D.Lgs. n. 114 del 1998, che vieta l’insediamento ai piani terreni, con vetrine che affacciano sulla strada, di attività paracommerciali, tra cui, in particolare, le agenzie immobiliari, al fine di preservare l’integrità dei fronti commerciali, e di salvaguardare e rivitalizzare le vie centrali della città, con l’esclusiva presenza di attività commerciali in senso stretto.
Con questa sentenza, la n. 190 del 27 gennaio 2010, il TAR Lombardia ha ritenuto il divieto suindicato illogico, irrazionale e in contrasto con l’art. 41 della Costituzione, che fissa principi in materia d’iniziativa economica privata e libera, poiché l’esigenza di preservare l’integrità dei fronti commerciali, non può essere considerata sufficiente a giustificare una limitazione così invasiva nell’attività economica di determinate categorie, in considerazione dello stato dei luoghi e della realtà territoriale, nel caso di un comune che non rappresenta una meta per le vacanze o una particolare attrazione turistica. La necessità di salvaguardare e rivitalizzare le vie centrali di un comune, imponendo che le vetrine siano utilizzate solo da attività con la vendita di beni al pubblico, infatti, può giustificarsi in una realtà turistica, in cui vi è l’opportunità di creare viali idonei al passeggio, ma non in un comune che rappresenta una meta per le vacanze o una particolare attrazione turistica.

venerdì 12 febbraio 2010

L'amministrazione deve comunicare la decurtazione dei punti, pena il risarcimento danni

Con sentenza n . 667 del 5 febbraio 2010, il T.A.R. del Piemonte ha stabilito che  nel sistema delineato dall'art. 126-bis D.Lgs. n. 285 del 1992, ad ogni violazione del codice della strada deve seguire, nei tempi dettati dalla legge, sia la relativa decurtazione di punteggio sia una specifica ed autonoma comunicazione al contravventore, così da consentire a quest'ultimo di "riparare" alla violazione commessa frequentando gli appositi corsi, allo stesso tempo alimentando il circuito educativo alla conoscenza ed al rispetto del codice della strada. Si pone pertanto in contrasto con la ratio dell'istituto della patente a punti, e viola l'art. 126-bis del codice della strada, il comportamento tenuto dall'amministrazione che, non comunicando la decurtazione che avrebbe dovuto seguire ad alcune infrazioni, non ha consentito alla ricorrente di venire a conoscenza della progressiva diminuzione del suo punteggio complessivo, in modo da poter frequentare i corsi di recupero appositamente istituiti con D.M. 29 luglio 2003, al fine di evitare il totale azzeramento del punteggio ed il provvedimento di revisione della patente ex art. 126-bis, comma 6, D. Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Codice della Strada). Da tale comportamento illecito della P.A. deriva il diritto a ottenere il risarcimento del danno.

mercoledì 10 febbraio 2010

Multe: in pendenza del ricorso al Prefetto non può essere emessa la cartella esattoriale

Avverso il verbale di accertamento di violazione di una norma del codice della strada è possibile esperire il rimedio giurisdizionale ricorrendo al Giudice di Pace, o amministrativo ricorrendo al Prefetto del luogo della commessa violazione.
Nell’ambito di quest’ultima ipotesi, la Cassazione con sentenza n. 26173 del 14/12/2009, ha stabilito che in pendenza del ricorso al Prefetto, ai sensi dell’art. 203, Codice della Strada, e dunque fino a quando quest’ultimo non decide in proposito, non sussiste alcun titolo esecutivo che possa dar luogo alla emissione di una cartella esattoriale di pagamento.

La distruzione di una copia del testamento non integra una revoca

A norma dell’art. 684, c.c., il testamento olografo può essere revocato anche mediante la sua distruzione. Ma cosa accade se il testatore ha redatto due copie aventi lo stesso contenuto, e ne ha distrutta solo una?
Su questa problematica si è pronunciata la Cassazione, che con sentenza n. 27395 del 28/12/2009, ha osservato che la distruzione è una revoca presunta, potendosi dimostrare il contrario, ovvero che la distruzione è stata operata da un terzo o dallo stesso testatore ma involontariamente. Pur tuttavia, l’applicabilità della citata norma è esclusa dall’esistenza della seconda copia che rappresenta comunque un regolare testamento olografo idoneo a produrre i propri effetti al momento della morte del suo autore, che, tra l’altro, è perfettamente cosciente della sua esistenza. La mera distruzione di una sola copia, infatti, potrebbe essere frutto della convinzione che un solo testamento sia sufficiente, magari perché affidato a una persona di fiducia.

Interessi: sul risarcimento decorrono dal giorno dell’accertato inadempimento

Nell’ambito della responsabilità contrattuale (ad esempio, contratto di compravendita), in caso d’inadempimento vige il principio secondo cui gli interessi sulle somme di denaro liquidate a titolo risarcitorio decorrono dalla data della domanda giudiziale, in quanto atto idoneo a costituire in mora il debitore.
La Cassazione, con sentenza n. 26226 del 15/12/2009, ha statuito che il suddetto principio non può essere inteso nel senso che tale data vada individuata come momento di decorrenza degli interessi anche nel caso in cui nel giudizio venga accertato la verificazione del colpevole inadempimento in un momento successivo alla domanda, giacché avendo l’obbligazione per interessi natura accessoria, una sua decorrenza diversa da quella dell’obbligazione principale è priva di causa. Da ciò ne consegue che, se si accerta che l’inadempimento è successivo all’azione giudiziaria, gli interessi in esame decorrono da questa data e non da quella dell’azione.

martedì 9 febbraio 2010

Danneggiamento del terzo: l’assicurazione deve risarcire a prescindere dalle questioni della validità della polizza

La compagnia assicuratrice di un utente della strada ha l’obbligo di risarcire il terzo danneggiato dal proprio cliente, anche se dovessero sussistere delle questioni inerenti la validità della polizza che non siano percepibili dal danneggiato, come il diverso numero di telaio del mezzo non espressamente indicato nel tagliando esposto sul parabrezza.
Con sentenza del 15 gennaio 2010, n. 1823, la IV Sezione Penale della Cassazione ha condannato una compagnia assicurativa al pagamento dei danni subiti da una persona coinvolta in un sinistro sebbene la stessa società contestasse la validità dell’assicurazione precisando che secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte, nei giudizi di risarcimento dei danni derivanti dalla circolazione di veicoli per i quali vi è obbligo di assicurazione, nei rapporti tra danneggiato e compagnia assicurativa non assumono rilievo questioni riguardanti la validità della polizza.
Per quanto concerne la relazione tra danneggiato ed assicuratore vale, infatti, il principio posto dalla L. n. 990 del 1969, art. 7, secondo cui, nei confronti dei danneggiato, l'assicuratore è tenuto al risarcimento dei danni per tutto il periodo indicato nella polizza, indipendentemente dalla sua validità, visto che il certificato di assicurazione attesta verso i terzi la presenza della garanzia assicurativa e da questa attestazione nasce l'obbligazione risarcitoria (Cfr. Cass. Sez. 3, Sent. n. 10504 dell'8 maggio 2006).
In particolare, il rilascio del contrassegno assicurativo da parte dell'assicuratore vincola quest'ultimo a risarcire i danni causati dalla circolazione del veicolo, pure se il contratto non è efficace, poichè verso il danneggiato ciò che rileva è l'autenticità del contrassegno, non la validità del rapporto assicurativo, dovendosi tutelare il legittimo affidamento dei terzi (Cfr. Cass. Sez. 3, Sent. n. 16726 del 17 luglio 2009).
Sostiene parte ricorrente che la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto del fatto che, in base alla, art. 7, comma 4, il contrassegno assicurativo doveva essere applicato "sul veicolo cui l'assicurazione si riferisce", mentre, nella specie, venendo in considerazione una macchina avente solo targa identica a quella indicata nel contrassegno, ma diverso telaio e motore, non poteva parlarsi di identità fra il veicolo assicurato e quello coinvolto nell'incidente Detto assunto è privo di pregio.
Infatti, a norma dell’art. 7, L. n. 990 del 1969, l'adempimento degli obblighi stabiliti dalla presente legge deve essere comprovato da apposito certificato rilasciato dall'assicuratore, da cui risulti il periodo di assicurazione per il quale sono stati pagati il premio o la rata di premio; l'assicuratore è tenuto nei confronti dei terzi danneggiati per il periodo di tempo indicato nel certificato, salvo quanto disposto dall'art. 1901 c.c., comma 2; all'atto del rilascio de certificato di assicurazione l'assicuratore consegna inoltre all'assicurato un contrassegno recante la sua firma, il numero della targa di riconoscimento del veicolo e l'indicazione dell'anno, mese e giorno di scadenza del periodo di assicurazione per cui è valido il certificato.
Dalla L. n. 990 del 1969, art. 7, commi 1, 2 e 3 e dall'art. 9 del regolamento di esecuzione, si ricava che: l'esistenza del contratto è dimostrata dal certificato di assicurazione; l'assicuratore risponde nei confronti dei terzi per il periodo ivi indicato; assieme al certificato è rilasciato un contrassegno dell'assicuratore; sia nel certificato che nel contrassegno è riportato, ai fini dell'identificazione del veicolo assicurato, il solo numero di targa e non quello del telaio, tranne che in casi eccezionali.
Se ne evince che nel certificato di assicurazione il numero della polizza è associato in linea generale alla targa, che nel contrassegno dell'assicuratore è pure menzionata la sola targa e che, quindi, il "veicolo cui l'assicurazione si riferisce", del quale fa menzione la L. n. 990 del 1969, comma 4, è quello identificato nel certificato e nel contrassegno de quibus con il numero della targa.
D'altronde, non si comprende come potrebbe validamente essere tutelato l'affidamento dei terzi (che, appunto, assume primario rilievo nel loro rapporto con l'istituto assicuratore secondo l'intero assetto normativo vigente) qualora si faccia riferimento al numero dei telaio, dato che non può essere considerato di agevole percezione, mentre, invece, è proprio con il numero di targa, facilmente conoscibile, che la posizione dei danneggiati riceve adeguata protezione.

Sinistro causato da un animale selvatico: ecco chi deve risarcire

Se un utente della strada subisse dei danni in seguito ad uno scontro con un animale selvatico piombato improvvisamente sulla carreggiata, chi ha l’obbligo di risarcirlo?
A questa domanda da una risposta la Cassazione, che con sentenza n. 80, dell’8 gennaio 2010, conferma un indirizzo già consolidato e sancisce il principio di diritto secondo il quale: "La responsabilità aquiliana, o extracontrattuale, per i danni provocati da animali selvatici alla circolazione dei veicoli deve essere imputata all’ente, sia esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, ecc, a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, sia che i poteri di gestione derivino dalla legge, sia che derivino da delega o concessione di altro ente (nella specie della Regione). In quest’ultimo caso, sempre che sia conferita al gestore autonomia decisionale e operativa sufficiente a consentirgli di svolgere l’attività in modo da poter efficientemente amministrare i rischi di danni a terzi, inerenti all’esercizio dell’attività, e da poter adottare le misure normalmente idonee a prevenire, evitare o limitare tali danni”.
I Giudici della Suprema Corte formulano il suddetto principio osservando che il caso in esame concerne il problema della responsabilità per i danni arrecati a terzi dal comportamento della fauna selvatica, sulla base dei principi generali in tema di illecito civile di cui all’art. 2043 ss. cod. civ.: materia su cui le leggi speciali, statali e regionali, che regolano competenze e responsabilità dello Stato e degli enti locali, nulla dispongono espressamente. (Sull’evoluzione della normativa in materia cfr. Cass. civ. Sez. 3^, 12 agosto 1991 n. 8788, in motivazione).
La L. 11 febbraio 1992, n. 157 (art. 26) dispone che sia costituito un apposito fondo regionale per il risarcimento dei c.d. danni non altrimenti risarcibili, cioè dei danni arrecati dagli animali alle coltivazioni ed ai fondi agricoli che non siano imputabili a colpa di alcuno, il rischio del cui verificarsi sia inevitabilmente collegato alla stessa esistenza della fauna selvatica.
Analoghe disposizioni sono contenute nelle diverse leggi regionali.
Da tali disposizioni, tuttavia, non si possono trarre indicazioni quanto alla disciplina applicabile ai danni a terzi, ed in particolare ai casi, oggi frequenti, di danni alla circolazione stradale: né quanto all’ente responsabile, né quanto ai criteri di imputazione della responsabilità.
La disciplina applicabile deve essere ricostruita sulla base dei principi generali in tema di responsabilità civile, che impongono di individuare il responsabile dei danni nell’ente a cui siano concretamente affidati, con adeguato margine di autonomia, i poteri di gestione e di controllo del territorio e della fauna ivi esistente, e che quindi sia meglio in grado di prevedere, prevenire ed evitare gli eventi dannosi del genere di quello del cui risarcimento si tratta.
Nel caso in esame si tratta di stabilire se tali poteri spettino alla Regione o alla Provincia (o ad entrambe): problema da risolvere con riguardo sia alle leggi nazionali che regolano le rispettive competenze, sia alle leggi della regione interessata; che quindi è suscettibile di diversa soluzione, nell’ambito delle diverse regioni.
La L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 14, sulle autonomie locali attribuisce alle province le funzioni amministrative che attengano a determinate materie, fra cui la protezione della fauna selvatica (comma 1, lett. F), nelle zone che interessino in parte o per intero il territorio provinciale.
La L. 11 febbraio 1992, n. 157, destinata a regolare la protezione della fauna selvatica, attribuisce alle regioni a statuto ordinario il compito di “emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie di fauna selvatica” (art. 1, comma 1) e dispone che le province attuano la disciplina regionale “ai sensi della L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 14, comma 1, lett. F)” (art. 1, comma 3), cioè in virtù dell’autonomia ad esse attribuita dalla legge statale; non per delega delle regioni.
Da tali disposizioni si desume che la regione ha una competenza essenzialmente normativa, mentre alle province spetta l’esplicazione delle concrete funzioni amministrative e di gestione, nell’ambito del loro territorio.

giovedì 4 febbraio 2010

Quando la Pubblica Amministrazione è responsabile di una strada privata

A norma dell’art. 824, codice civile, una strada è pubblica se la relativa proprietà è stata acquistata da un ente pubblico territoriale (es.: Stato, Regione, Provincia, Comune, Area Metropolitana) in virtù di un atto o di un fatto idoneo a produrne il trasferimento.
Con sentenza n. 7 del 04/01/2010, la Cassazione civile ha statuito che per determinare l’appartenenza di una strada a un ente pubblico, non è sufficiente l’uso pubblico, che potrebbe essere determinato anche da altre vicende giuridiche (es. servitù), ma è necessario valutare altri elementi come l'ubicazione della strada all'interno dei luoghi abitati, l'inclusione della toponomastica del comune, la posizione della numerazione civica, il comportamento della P.A. nel settore dell'edilizia e dell'urbanistica.
Se un comune consente alla collettivita' l'utilizzazione, per pubblico transito, di un'area di proprieta' privata assume l'obbligo di accertarsi che la manutenzione dell'area e dei relativi manufatti non sia trascurata; e l'inosservanza di tale dovere di sorveglianza, che costituisce un obbligo primario dalla P.A., per il principio del non ledere, integra gli estremi della colpa e determina la responsabilita' per il danno cagionato all'utente dell'area, a nulla rilevando che l'obbligo della manutenzione incomba sul proprietario dell'area stessa.

Risarcisce i danni la P.A. che emette un provvedimento illegittimo

Cosa succede se un’amministrazione pubblica (ad es. l’Agenzia delle Entrate, Comune, Provincia, Ministero) pone in essere un atto illegittimo che costringe il contribuente ad adire le vie legali, provocando in capo a questi un danno costituito, tra l’altro, dalle spese per difendersi in giudizio?
Ebbene, quando la Pubblica Amministrazione (P.A.) emette un provvedimento illegittimo, ovvero contrario alla legge, ha il potere di tutelare, unilateralmente, la propria sfera giuridica facendo venire meno l’atto “incriminato”. Quando non opera seguendo tale procedimento, chiamato di “autotutela”, facendo sorgere in capo al cittadino - destinatario dell’atto illegittimo - un danno, nasce a suo carico l’obbligo di risarcirlo.
Questo principio è stato sancito dalla Cassazione che con sentenza n. 698, del 19/01/2010, ha stabilito che «ove il provvedimento di autotutela non venga tempestivamente adottato, al punto di costringere il privato ad affrontare spese legali e d'altro genere per proporre ricorso e per ottenere per questa via l'annullamento dell'atto, la responsabilità della P.A. permane ed è innegabile».

lunedì 1 febbraio 2010

Canone di locazione: quando gli aumenti sono illegittimi

Per gli immobili adibiti a uso diverso da quello abitativo, a norma dell’art. 32, L. n. 392/1978, le parti possono convenire che il canone di locazione sia aggiornato annualmente su richiesta del locatore per eventuali variazioni del potere d’acquisto (inflazione).
La Corte di Cassazione, al riguardo, con la sentenza n. 2527, del 7/2/2006, ha affermato la nullità della clausola che aumenta in modo automatico il canone, senza una preventiva esplicita richiesta del locatore, precisando che: "La clausola di un contratto di locazione con la quale le parti convengano l’aggiornamento automatico del canone su base annuale, a seguito delle modifiche apportate all’articolo 32 della legge 392/1978 dall’articolo 1, comma 9-sexies, della legge 118/1985, senza necessità di richiesta espressa del locatore, è affetta da nullità in base al combinato disposto degli articoli 32 e 79 della legge, perché il citato articolo 32, non prevedendo più, come nella sua originaria formulazione, la possibilità di aggiornamento soltanto biennale, svincolato da ogni riferimento alla richiesta del locatore, introduce, all’esito della modifica, la possibilità di aggiornamenti annuali presupponendo che aumenti possano avvenire soltanto su specifica richiesta del locatore, da operarsi successivamente all’avvenuta variazione degli indici di riferimento. La certezza dell’entità dell’obbligazione del conduttore risulta tutelata soltanto dalla previsione di tale, specifica richiesta, puntualmente riferita all’avvenuta variazione degli indici ISTAT".

Eredità: il termine per “recuperare” la quota spettante per legge

Al coniuge, ai figli e agli ascendenti di chi dispone per testamento (legittimari), la legge attribuisce una quota di eredità che non può essere lesa né con donazioni fatte in vita, né con altre disposizioni testamentarie. Qualora ciò dovesse accadere, il nostro ordinamento riconosce agli stessi legittimari un’azione giudiziaria, chiamata di riduzione ed esperibile in dieci anni, che mira, appunto, a ridurre gli atti lesivi sino alla ricostituzione dell’originaria quota riservata dalla legge.
Una problematica che ha diviso giurisprudenza e dottrina investiva la decorrenza del suddetto termine, poiché alcuni ritenevano che lo stesso coincidesse con l’apertura della successione, altri con la pubblicazione del testamento.
Ebbene, sull’argomento è intervenuta la Cassazione a Sezioni Unite, che con sentenza del 25 ottobre 2004, n. 20644, ha statuito che in caso di lesione avvenuta per donazione, il termine per esercitare l’azione di riduzione decorre dall’apertura delle successione perché solo in questo momento è possibile stabilire se vi è stata effettiva lesione, in quanto questo è l’istante in cui deve calcolarsi la quota spettante a ciascun legittimario. In caso di lesione per disposizione testamentaria, invece, la prescrizione decorre dal momento dell’accettazione dell’eredità da parte del legittimario, perché è solo con l’accettazione che il legittimario manifesta la volontà di acquistare la quota riservata dalla legge, creando così la condizione che lo legittimi ad agire in riduzione.