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mercoledì 10 marzo 2010

La posizione della Cassazione in materia di danno da dequalificazione professionale

Con sentenza del 22/02/2010, n. 4063, le Sezioni Unite della Cassazione si pronunciano sul danno derivante da dequalificazione professionale, specificando come deve essere provato, in presenza di quali condizioni esso si verifichi e quali interessi devono essere lesi.
Relativamente alla prova del danno, i Supremi Giudici confermano il precedente indirizzo giurisprudenziale (Cass. n. 6572 del 24/03/2006; Cass. n. 29832 del 19/12/2008), sostenendo che, in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo, dovendo il danno non patrimoniale essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno.
Inoltre, la Corte chiarisce che nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale (artt. 32 e 37 Cost.), il danno non patrimoniale è configurabile ogni qualvolta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti della persona del lavoratore, concretizzando un "vulnus" ad interessi oggetto di copertura costituzionale; questi ultimi, non essendo regolati "ex ante" da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi - concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili - dai danni che vanno risarciti, mediante una valutazione supportata da una motivazione congrua, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi giuridici applicabili alla materia, sottratta, come tale, anche quanto alla quantificazione del danno, a qualsiasi censura in sede di legittimità (Cass. n. 10864 del 12/05/2009).
La liquidazione del danno non patrimoniale, infine, non può essere simbolica, dovendo essere adeguata all'entità del pregiudizio effettivo subito dal lavoratore; il quale deve essere valutato nel suo complesso, considerando la persistenza del comportamento lesivo (sia pure in mancanza di intenti di discriminazione o di persecuzione idonei a qualificarlo come mobbing), la lunga durata delle reiterate situazioni di disagio professionale e personale, consistite, fra l'altro, nel dover operare in un locale piccolo e fatiscente e privo di computer, nonché l'inerzia dell'amministrazione rispetto alle richieste del dipendente intese a non compromettere il suo patrimonio di esperienza e qualificazione professionale.

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