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mercoledì 17 febbraio 2010

Licenziamento senza causa: il risarcimento è limitato al tempo ragionevole per presentare ricorso

In caso di licenziamento senza causa, l’art. 18, l. n. 300/1970, statuto dei lavoratori, dispone che il giudice deve condannare il datore di lavoro al pagamento di un’indennità pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione. Da ciò ne deriva che maggiore è tale lasso di tempo, maggiore sarà il danno liquidato dal giudice.
Quest’arco temporale, però, non può essere eccessivamente lungo se non in presenza di giustificati motivi da provare in giudizio, in quanto, a detta del Tribunale di Milano che si è pronunciato il 13 novembre 2009 su tale problematica, l'inerzia del lavoratore nell'adire in tempi ragionevoli l'autorità giudiziaria non può e non deve essere fatta gravare esclusivamente sul datore di lavoro ma, al contrario, deve essere valorizzata ex art. 1227 cc, avendo contribuito ad aggravare l'entità del danno. L'entità del risarcimento dei danno a seguito dell'accertamento della illegittimità del licenziamento commisurata dal legislatore alla retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento fino a quello della reintegra, infatti, non può essere portata fino al punto di far gravare sul datore di lavoro conseguenze risarcitorie che, pur trovando la loro causa accidentale nell'illegittimo licenziamento, siano essenzialmente determinate da una condotta quantomeno negligente del danneggiato. Tale principio ha già trovato accoglimento dalla giurisprudenza della Suprema Corte nel casi in cui è stata riconosciuta la possibilità di effettuare la "compensatio lucri cum damno" detraendo I' "aliunde perceptum" dalle retribuzioni dovute al ricorrente da parte del datore di lavoro (cfr in tal senso : Cassazione SSUU. n. 12194 del 13.8.02; Cassazione n. 8494 del 28.5.2003.). In tal caso non ci si trova, evidentemente, di fronte ad un comportamento colpevolmente inerte del lavoratore, ma ciò che rileva è l'affermazione del principio generale secondo cui la misura del danno deve essere determinata evitando che possa esservi una locupletazione del danneggiato, che di certo non può "arricchirsi" oltre quella che è l'effettiva misura del pregiudizio subito.
Orbene, riconoscere al ricorrente il risarcimento per l'intero periodo trascorso tra il licenziamento e la sentenza di reintegrazione comporterebbe una ingiustificata valorizzazione del comportamento colposamente inerte del lavoratore nell'attivare la fase giudiziale.
Cosi facendo, tuttavia, si arriverebbe a riconoscere la legittimità di condotte viceversa chiaramente contrarie ai più elementari canoni di buona fede e correttezza che di certo vigono anche rispetto allo strumento processuale, di cui non si deve abusare per ottenere un illegittimo incremento del danno liquidato.
Da qui la decisione di ritenere che 15 mesi siano sufficiente per il lavoratore e per il suo difensore per adire il giudice al fine di affermare l'illegittimità del licenziamento e che questo deve essere il periodo massimo indennizzabile, cui va aggiunta la durata del processo di certo non imputabile al ricorrente.

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